Il saluto e la scoperta dell'Altro
In Uganda non puoi iniziare a parlare con qualcuno se prima non gli chiedi “come stai?”. Ci metto un po’ ad abituarmi perché questa regola vale per tutte le persone e in ogni momento della giornata. La risposta è quasi sempre la stessa, ovvero “io sto bene e tu?”, ma se non chiedi al tuo interlocutore come sta prima di rivolgerti a lui il rischio che si offenda è molto alto. Quando si saluta e basta può capitare che l’altro ti risponda “sto bene”, sottolineando così la mancata domanda.
Curioso questo modo di iniziare la relazione tra persone. I primi giorni in cui mi trovavo qui avevo la sensazione di un’eccessiva e inutile formalità. Perché chiedere ad un altro come sta se tanto la risposta è sempre la stessa? Con il passare dei giorni, invece, mi sono reso conto che dietro questo saluto si nasconde qualcosa di molto più profondo. Quando le persone ti salutano sembrano davvero interessate a te. Lo leggi dai loro sorrisi, dagli sguardi pieni di calore, dalle parole che seguono questo saluto iniziale.
Un ragazzo mi ha raccontato che il popolo ugandese è molto cordiale e amichevole, al punto da non essere mai riuscito a ribellarsi al colonialismo prima, al regime di Amin poi e anche al presidente di adesso, in carica da più di 25 anni. Non sa spiegarmi il perché di tutto questo, semplicemente mi dice che a loro basta non avere problemi con le altre persone e stare in pace con tutti. Noto questo atteggiamento in tanti aspetti della vita. Ad esempio il traffico, che in alcuni momenti della giornata diventa davvero impressionante. Eppure non ho mai visto due persone litigare in macchina, neppure quando qualcuno taglia la strada ad un altro o passa con il rosso. Mi è capitato di vedere un ragazzo in bicicletta toccato da un boda-boda nel mezzo di un incrocio. Il ragazzo non è caduto ma ha spaccato la bici. Si è fermato al bordo della strada, l’ha guardata, aggiustata ed ripartito senza dire nulla, senza arrabbiarsi, senza insultare quella motocicletta. Nessuno qua sembra innervosirsi mai. Ogni tanto penso che un po’ di rabbia in più gli farebbe bene ma, come sto spesso constatando in questi giorni, ho perso gli strumenti per giudicare. Davvero è meglio il nostro modo, spesso carico di rabbia, stress, cattiveria nei confronti dell’altro che neanche conosciamo? Penso che ognuno di noi abbia in mente diversi episodi in cui si è arrabbiato in macchina contro perfetti sconosciuti augurando loro qualsiasi malvagità…Ma la cosa che più mi sorprende è che nessuno sembra approfittare di questa confusione. Il caos che si vede per strada sembra molto organizzato, come se tutti sapessero come fare per consentire anche agli altri di passare, se pur in maniera caotica. Attraversare la strada è un’impresa ma non ho mai rischiato realmente di venire investito come invece mi è capitato più volte a casa. Quando ci si butta in mezzo alla strada per passare le macchine si fermano sempre, i boda ti schivano con maestria, e tu, superata la paura iniziale, hai la certezza di questo loro comportamento. Un po’ è come se dicessero “c’è posto per tutti” ma ovviamente, essendo in tanti, non può che esserci questa confusione.
“Noi siamo poveri e sappiamo di esserlo…perché dovremmo anche arrabbiarci? Cosa risolverebbe”. Ecco cosa mi dice un’altra persona nel parlarmi della loro tranquillità. Mi racconta poi una barzelletta. Ci sono tre uomini che vengono scelti da Dio per fargli una richiesta. Un bianco, un asiatico e un africano. Il bianco va dal Signore e gli chiede la saggezza. Poi è il turno dell’asiatico che chiede il petrolio. Infine tocca all’africano. Dio gli chiede “che cosa desideri che io faccia per te?” e l’altro risponde “Niente, sono venuto qui solo per chiederti “Ciao, come va?”. Moses, che ha 33 anni e che ha avuto la possibilità di studiare anche all’estero perché aiutato da una famiglia americana, ride nel parlarmi del suo popolo ed è convinto che il nostro modo di vivere sia migliore del loro. Io non ne sono del tutto convinto, dipende dal punto di vista che utilizziamo. L’impressione è che un po’ di rabbia in più aiuterebbe ad essere più presenti nella vita pubblica, a far presente a chi governa cosa non funziona e a sviluppare un pensiero maggiormente critico. Ma ancora una volta sottolineo come questa sia solo una sensazione.
Posso però dire che questa cordialità non mi spiace, mi fa sentire parte di una comunità così diversa dalla mia. Spesso qua mi chiamano “fratello” e mi sembra che il legame e la vicinanza tra le persone sia qualche cosa di sentito. Quando cammino per la strada, nonostante il colore della pelle, non mi sento discriminato o in pericolo. Al contrario i loro occhi sono un misto di curiosità, orgoglio e piacere di vederti calpestare la loro stessa terra: “You are welcome!”. I bambini, poi, mi lasciano sempre senza parole. Quando ti vedono, soprattutto fuori da Kampala, ti corrono incontro e ti salutano gridando “Hello Musungu” (che significa uomo bianco). Un pomeriggio, mentre aspettavo mia moglie in ospedale, un bambino si è avvicinato a me e ha messo il suo braccio sulla mia spalla. Così ha aspettato con me e nel frattempo osservava la mia pelle, la mia barba, i miei capelli…tra le risate della madre e delle persone che passavano.
Gli occhi di quel bambino, così pieni di stupore nel vedere un essere umano tanto diverso da lui, mi hanno fatto provare una sensazione molto particolare che non avevo mai avuto l’opportunità di sperimentare prima. Quello sguardo mi ha fatto toccare con mano la bellezza che si nasconde dietro alla scoperta e alla novità e mi ha fatto pensare a quante cose diamo ormai per scontate nella nostra quotidianità. Mentre quel bambino mi osservava, anche il mio corpo, che prima di allora pensavo di conoscere bene, ha cominciato a non essermi più così tanto familiare e mi ha svelato particolari fino a quel momento nascosti. Soprattutto, quella bella sensazione di ignoranza, mi ha permesso di osservare meglio l’altro. In fondo, se non posso essere più sicuro di sapere chi sono, come posso pensare di sapere chi è l’Altro?