Il tempo, l’organizzazione e la prevenzione. Concetti qui inutilizzabili
Secondo alcuni ugandesi il problema del loro paese è la mancanza dell’inverno. Con l’arrivo del freddo, infatti, le persone sono obbligate ad organizzarsi: bisogna avere legna in abbondanza per cucinare e riscaldarsi, provviste di cibo, ripari per gli animali…Non si può vivere alla giornata, bisogna organizzare il lavoro e la vita quotidiana in funzione delle stagioni. In Uganda, invece, la popolazione si è abituata ad avere sempre a disposizione tutto ciò di cui necessita e non ha pertanto alcun motivo per doversi organizzare. Il freddo, con tutto ciò che questo significa, non arriva mai e la terra è sempre pronta a offrire i suoi frutti, in qualunque giorno dell’anno.
Non credo che questa spiegazione abbia valore scientifico, anche perché altre persone mi hanno fatto notare che non esiste l’inverno ma esiste una stagione secca in cui la natura non produce, ma devo ammettere che è molto affascinante e soprattutto non avevo mai pensato all’inverno in questi termini. La disorganizzazione è un aspetto della vita in Uganda molto visibile. In qualche modo tutto va avanti ma con un dispendio di energie molto elevato e a fine giornata la fatica si fa sentire. Molto spesso, per prendersi in giro, le persone parlano di “minuti ugandesi” per giustificare i loro ritardi. Altre volte, quando ci si da un appuntamento, bisogna sempre chiedere se l’orario è quello africano oppure quello occidentale perché la differenza può anche essere di circa un’ora.
Un ragazzo che lavora con l’associazione Hope Street Children mi ha chiesto di aiutarlo ad organizzare il counseling per i suoi ragazzi. Ci siamo dati appuntamento alle 9.00 del mattino. Io ero pronto ad aspettarlo e quindi mi sono portato da leggere e sono arrivato con 15 minuti di ritardo. Alle 9.30 ancora niente. Lo chiamo e mi dice che sta arrivando. Alle 10.00, in sella ad un boda, arriva. Non si scusa del ritardo ma mi abbraccia e mi saluta come se niente fosse. Solo più tardi, mentre lavoravamo sulla scheda di counseling, per spiegarmi qualcosa della loro cultura mi dice che quando l’ho chiamato lui era a casa che si stava preparando e che non si era accorto dell’ora. Inoltre, mi dice, non aveva pensato al fatto che io fossi occidentale e che quindi sarei arrivato puntuale all’appuntamento. Da buon europeo, mentre lo aspettavo, pensavo a tutte le cose che avrei potuto fare nel lasso di tempo in cui aspettavo. Ma questa, come dicono spesso qui, è l’Africa e non bisogna pensare con la testa da occidentali. Certo è che il tempo, qui, sembra avere un significato diverso da quello che ha per noi. Il tempo è denaro, siamo soliti a dire a casa nostra. Qui di denaro ce n’è poco e quindi penso che per loro il tempo abbia un altro significato. Nessuno sembra avere fretta e, anzi, prendono in giro noi occidentali che corriamo sempre da una parte all’altra e ci stressiamo perché il tempo non ci sembra mai abbastanza. Sembrano tutti vivere alla giornata, organizzano al massimo il giorno dopo.
In una delle serate africane, ho avuto la fortuna di andare a vedere uno spettacolo a teatro. Si trattava di una serie di sketch in cui gli attori prendevano in giro alcune delle caratteristiche del popolo ugandese. Tra queste c’era anche la loro difficoltà nell’organizzarsi e nel tenere a mente le cose che altri gli suggeriscono. Effettivamente, quando si mangia in un bar e si è in più di due, le probabilità che il cameriere si sbagli nel portarti le cose che hai ordinato sono molto alte. Ti ascoltano, sembrano memorizzare, lo ripetono ad alta voce…ma poi sbagliano.
Lo stesso concetto di prevenzione, qui, sembra non essere di casa. Prevenire significa in qualche modo pensare ad un rischio e organizzare le azioni da fare per evitare che quel rischio si concretizzi. In ospedale, ad esempio, le persone ci arrivano quando i sintomi della malattia si sono già manifestati in maniera evidente e non è più possibile passarci sopra. Questo significa anche che spesso, quando si rivolgono ad una struttura sanitaria, è troppo tardi per intervenire soprattutto se si pensa alle possibilità che hanno qui. Certe volte penso che noi, in Italia, ci muoviamo piuttosto nel senso opposto e ci rivolgiamo al medico anche quando potremmo tranquillamente evitare di farlo. Oppure a come il concetto di prevenzione rischi di diventare eccessivamente invasivo nella vita delle persone fino a limitarne la possibilità di azione.
Mi sembra di avere trovato una maggiore consapevolezza del fatto che la vita sia, almeno in parte, fuori dal nostro controllo e che quindi sia inutile tentare di addomesticarla e piegarla a nostro piacimento. La morte non sembra essere un tabù, qualche cosa da evitare in tutti i modi, quanto piuttosto una parte della vita che non deve fare paura e che soprattutto non possiamo far finta non esista. Tutto questo mette ovviamente in discussione il concetto stesso di vita, che noi in occidente tendiamo a considerare come un valore assoluto. Basterebbe girare l’angolo, osservare anche altre zone del mondo, per accorgersi che la vita ha un valore diverso a seconda del punto di osservazione che noi utilizziamo. Qui la vita è importantissima, non voglio essere frainteso, e la gioia e l’intensità che mettono nelle relazioni ne è la dimostrazione. Semplicemente mi sembra che la morte non rappresenti una tragedia, ma una delle condizioni dell’essere umano.
Penso che molto dell’entusiasmo che in occidente abbiamo per le nuove tecnologie nasconda in realtà un desiderio di controllo della vita e, di conseguenza, della morte. Forse, per come è strutturata la nostra quotidianità, non possiamo fare a meno di avere questo controllo ma, se osservo i nostri comportamenti da questa particolare prospettiva, non posso fare a meno di sorridere. Molte delle nostre azioni sono volte alla ricerca del benessere e al tentativo di allontanare il più possibile le cause di malessere. Si pensa che “stare bene” sia un diritto che tutti devono avere, nessuno escluso. In questo modo, però, non ci stiamo accorgendo di quanto siamo diventati attenti solo ai nostri bisogni e di come tutto questo possa avvenire anche a scapito dell’altro. Non credo siano state le nuove tecnologie a portarci su questa strada ma, certamente, le apprezziamo tanto anche perché ci permettono, certe volte illudendoci, di preservare il nostre benessere. La direzione da seguire, a mio avviso, è però un’altra. Solo la cura della relazione con l’altro ci può permettere di stare bene. Ciò che questo significa per ciascun essere umano non può essere definito a priori e ognuno di noi ha la responsabilità di scoprirlo.
Pochi giorni prima di partire mi sono imbattuto in questa canzone di Fabi, Gazzè e Silvestri. Forte è stata la sorpresa di vedere questi tre cantanti muoversi sulle strade del Su Sudan.