Psicoanalisi

L’illusione di essere liberi: il godimento dell’idiota

Da adolescente accarezzavo l’idea della libertà come assenza totale di condizionamenti. Ricordo, ad esempio, che ero arrabbiato con i miei genitori per avermi battezzato quando ancora ero piccolo, in quanto in questo modo avevano iscritto nella mia vita un segno che non mi avrebbe mai più lasciato totalmente libero di scegliere. Essere libero significava poter fare tutto quello che desideravo, non dover rendere conto a nessuno. Certo, già allora questo ideale di libertà vacillava…a partire dal mio corpo che non mi consentiva di essere qualunque cosa. Poi dovevo fare i conti con il mio carattere che mi portava a comportarmi in maniera inaspettata, senza contare infine che il dovermi confrontare con le altre persone limitava di gran lunga la mia scelta libera. Allora non davo troppo peso a tutti questi pensieri, insistevo nell’illusione che una vera libertà sarebbe prima o poi stata possibile perché era per me insopportabile l’idea che un Altro scegliesse al posto mio.

Crescendo, ma soprattutto leggendo, scrivendo e ascoltando le persone che arrivano nel mio studio, mi sono accorto di una questione centrale: non è possibile liberarsi dall’Altro (e, aggiungo, per fortuna). Certamente tutto questo può recare anche sofferenza, ma l’idea di una libertà assoluta, che non tenga cioè in conto della necessità di rapportarsi all’Altro, non è che un’illusione. Ciascun essere umano è chiamato alla relazione con l’Altro e ogni tentativo maldestro di staccarsi da esso non può che cadere nel sintomo.

Sono partito da qui per mettere in luce un fenomeno, che non posso che chiamare perverso, della nostra contemporaneità: l’illusione di poter finalmente fare a meno dell’Altro, di bastare a se stessi. Il discorso è ampio e dovrò per forza ridurlo per poter cogliere il punto essenziale. Se non si recupera questo rapporto con l’Altro, se cioè non si accetta che l’idea di libertà debba essere ricercata all’interno della relazione con l’Altro e non in un esterno illusorio, il rischio è di trovarsi sempre di più in una realtà anonima, dove il conformismo e l’universale dominerà sul singolare e sull’unicità della parola. Perché il posto vuoto lasciato da questo rapporto, più che offrire l’occasione per sviluppare la propria soggettività, viene riempito da oggetti di consumo di vario tipo, tra cui anche notizie, informazioni, ideali. Se da una parte recuperare il rapporto con l’Altro significa fare i conti con la propria esistenza, con i limiti e anche con la singolarità del proprio desiderio, dall’altra illudersi di non avere più bisogno dell’Altro, di poter cioè bastare a stessi, significa esporsi al godimento immediato che gli oggetti di consumo possono dare. Tra questi oggetti, come dicevo prima, non possiamo non mettere anche le notizie e le informazioni che corrono sui social. Per questo i dibattiti online sono sempre così noiosi, facilmente manipolabili, poco critici e si riducono a scambi tra posizioni morali e ideali che di fatto non aggiungono nulla di interessante alla questione che vorrebbero trattare. Le notizie vengono consumate, assistiamo ad un’abbuffata di tweet o di titoli di giornale, a prese di posizione che cancellano la posizione dell’Altro, che mettono tutti sullo stesso piano annullando ogni possibile differenza. Questo è un punto essenziale della nostra epoca: quella che Lacan ha nominato come evaporazione del padre, ovvero la perdita della verticalità e dell’ideale in nome di un orizzontalità che cancella le differenze, apre le porte al consumo idiota e privo di senso dell’oggetto. Senza differenza, occorre sottolinearlo, non c’è relazione possibile.

Il pensare di essersi finalmente liberati dall’oppressione dell’Altro e di poter fare tutto da soli conduce ad un altro incrocio pericoloso della nostra contemporaneità. C’è un’espressione che mi sembra possa descrivere con molta precisione questo passaggio ed è questa: “Se non faccio del male a nessuno, se si tratta solo di una mia scelta e, soprattutto, se mi fa stare meglio perchè non dovrei essere libero di fare quello che voglio?”. Ho incontrato questa domanda molte volte durante la mia pratica clinica: dalla madre che si chiedeva il perché avrebbe dovuto interrompere lo spionaggio del telefono intelligente del figlio dal momento che in questo modo avrebbe potuto sapere quasi in tempo reale che cosa passasse per la testa del figlio e intervenire nei casi problematici; da alcune ragazze che si riempivano di farmaci per evitare di provare dolore o per poter studiare meglio; da alcuni ragazzi che non trovano motivo per sospendere il loro giocare ai video game visto che si divertivano; e, ancora, un giovane studente che non riusciva proprio a capire il senso di imparare la matematica dal momento che sul suo smartphone si trovava un applicazione in grado di svolgere al suo posto i calcoli richiesti. Ma questo discorso, a ben vedere, può essere allargato a tematiche di importanza sociale indiscutibile. Ad esempio, in questo periodo in cui il terrorismo è tornato a riaffacciarsi con forza e violenza a sul palcoscenico europeo, sono in tanti a chiedersi il perché non si possa attuare una sorveglianza di massa attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Ovvero, perché se si ha la possibilità di leggere le conversazioni delle persone, di schedarle attraverso il riconoscimento facciale, di integrare quantità enormi di dati sulle persone non si dovrebbe farlo? In nome di cosa dovremmo evitare di usare i progressi che la scienza ci mette a disposizione?

Se l’avventura sulla terra dell’essere umano è infatti piena di possibili insidie, come del resto suggerisce la lettura de Il disagio della Civiltà di Freud, perché non accettare questi progressi come possibilità di deviare rispetto al corso originario del destino umano? A supporto di questa domanda, che come accennavo prima rappresenta il nostro sociale, c’è la tesi più o meno esplicita che il progresso e l’addomesticamento della natura siano a loro volta elementi naturali. L’idea è che la scienza si stia spingendo sempre più in là, a fondo, verso l’esplorazione di terreni prima sconosciuti e che, prima o poi, si possa davvero raggiungere la perfezione. Da questo punto di vista, ad esempio, i progressi nel mondo della comunicazione, nella misura in cui semplificano, velocizzano e rendono immediato lo scambio verbale tra persone, non possono che essere giusti, naturali, la normale evoluzione dello scambio relazionale. Ma questo discorso mette in ombra la questione opposta: davvero l’essere umano aveva bisogno di tutta questa velocità nella relazione? Non ci stiamo accorgendo degli incidenti che questa eccessiva velocità sta causando? A questo punto riporto un passaggio de Il Disagio della Civiltà che ho trovato molto interessante.

Vien spontaneo obiettare: non è un acquisto positivo di piacere, un aumento indubbio del sentimento di felicità, poter ascoltare tutte le volte che lo desidero la voce d’un bambino che vive centinaia di chilometri lontano da me, o apprendere da un amico, subito dopo lo sbarco, che ha portato felicemente a termine un lungo e faticoso viaggio? Non conta nulla che la medicina sia riuscita non solo a ridurre enormemente la mortalità infantile e i pericoli di infezione delle partorienti, ma anche a prolungare di un numero considerevole di anni la durata media della vita dell’uomo civile? Potremmo continuare a lungo l’elenco di questi benefici, dovuti alla tanto disprezzata era del progresso scientifico e tecnico; ma a questo punto la voce della critica pessimistica interviene con l’ammonimento che la maggior parte di queste soddisfazioni ricalca il modello dei quel “godimento a buon mercato” decantato in un certo aneddoto. Per procurarsi tal diletto basta mettere una gamba nuda fuori dalla coperte in una fredda notte d’inverno e poi ritirarla dentro. Se non ci fossero ferrovie capaci di percorrere grandi distanze, il bambino non avrebbe mai lasciato la città natale e non avrei bisogno del telefono per udire la sua voce. Se non fossero divenute normali le traversate per nave dell’Oceano, l’amico non si sarebbe mai messo in viaggio e non avrei bisogno del telefono per calmare le apprensioni che nutro per lui. A che serve la riduzione della mortalità dei bambini, se ci obbliga alla massima cautela nel procrearli, così che tutto sommato non ne alleviamo di più che nei tempi antecedenti al trionfo dell’igiene, mentre così facendo abbiamo posto difficili condizioni alla nostra vita sessuale del matrimonio e abbiamo probabilmente lavorato contro i benefici della selezione naturale. E infine, a che pro una lunga vita quando essa ci è gravosa, priva di gioie e tormentosa al punto da farci salutare la morte come la nostra liberatrice?

Il disagio della civiltà ( 1929, p.579)

Non si tratta dunque di scegliere tra il bene e il male, tra la felicità e la sofferenza, il giusto e lo sbagliato. Occorre però non farsi accecare dalla presunta verità del nuovo, non prendere come unico metro di paragone il proprio presunto benessere. Di nuovo, bisogna non illudersi di avere escluso l’Altro dalla nostra esistenza, di essere nella libertà di poter scegliere senza vincoli. Solo in questo modo possiamo problematizzare i quesiti che il nostro tempo ci sta ponendo di fronte, cercando così di trattarli nelle pieghe della loro singolarità ed evitando di assumerli ad ideale del giusto.

A distanza di anni ringrazio i miei genitori di avere lasciato in me quel segno di amore perché solo a partire dalla difficoltà e dalla scomodità di quel tratto ho potuto mettere in discussione, liberamente, tutta una serie di aspetti della mia esistenza.