Psicoanalisi

L’esperienza analitica

Da qualche mese ho modificato il mio modo di essere presente sul blog e su Twitter. Ho scritto meno, in realtà ho scritto di più anche se non ho pubblicato, ho cercato di selezionare gli articoli da leggere, ho silenziato più di una volta il telefono per evitare di essere interrotto durante le mie letture. E poi ho evitato di dire per forza la mia opinione su alcuni fatti che si sono gonfiati e sgonfiati nel giro di qualche ora, al massimo di qualche giorno. Ho cercato di limitare il più possibile le parole, sia lette che scritte, in quanto non mi sembravano altro che ripetizioni svuotate di senso. Non è stato difficile fare tutto questo, piuttosto è stato necessario. Questa mi sembra già una prima considerazione: i vari dispositivi tecnologici a nostra disposizione non fanno altro che portarci a consumare le parole e le informazioni come fossimo presi da crisi bulimiche. La velocità, la necessità di produrre dati, le statistiche, il voler sapere tutto e in maniera rapida possono portare a sentire il bisogno di nutrirsi di tutto questo, salvo poi accorgersi che la fame è altrove. In realtà, questo bisogno di riempire il vuoto, non riguarda solo la dimensione tecnologica ma abbraccia la nostra società in maniera molto più ampia di quello che si potrebbe pensare. Come spiega Lacan quando parla del discorso del capitalista, quello che è avvenuto e sta avvenendo è la manifestazione di un discorso, ovvero di ciò che che si può produrre grazie all’esistenza del linguaggio e che ha funzione di legame sociale (Del Discorso psicoanalitico), che mette al centro un soggetto non più mancante, ma vuoto. Per riempirsi, questo soggetto che domanda continuamente qualche cosa in grado di poterlo soddisfare, necessita continuamente di oggetti, gadget di varia natura (tra cui anche quelli tecnologici), sostanze stupefacenti e anche…relazioni sociali. Perché ciò che sta avvenendo oggi è una vera e propria mercificazione della socialità, che non è più qualche cosa che avviene nella contingenza, ma un oggetto che si può comprare, sostituire, ottenere, fare proprio, eliminare. Tutti questi oggetti, però, non potranno mai soddisfare l’essere umano, in quanto la presunta soddisfazione che essi producono non fa altro che alimentare il bisogno di possederne un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora…fino all’infinito, o almeno fino a quando il soggetto esplode e manifesta in qualche modo la sua sofferenza.

La riduzione del tempo all’attimo, ovvero all’illusione che ci si possa staccare dal passato e che il futuro sarà ciò che quell’attimo potrà costruire, porta l’essere umano a pensare che l’unica cosa in cui valga davvero la pena credere e investire sia il proprio Io. Tanti penseranno che non c’è nulla di male in questo, ma il punto è che ho la sensazione che la credenza nel proprio Io unito al consumo all’infinito degli oggetti, non faccia altro che rendere l’essere umano sempre più isolato e staccato dalle relazioni sociali. C’è un’espressione che penso sia emblematica di quanto sto tentando di scrivere ed è questa: “Ma se posso stare meglio perché non devo farlo? Se non faccio male a nessuno, se non tolgo la libertà all’altro, perché non posso essere libero di fare quello che voglio?”. Indubbiamente questo discorso non fa una piega e non ho una risposta convincente da dare a chi si rivolge a me in questo a modo. Mi sento di mettere in luce quanto questo discorso non faccia altro che produrre un nuovo oggetto da introdurre nella propria vita, che sia un gadget telefonico, una medicina o un figlio, ma che tutto questo ancora una volta non soddisferà perché là dove non si pone limite al godimento non può esistere alcun desiderio. Là dove c’è un Io nella cabina di comando, che pensa di sapere ciò di cui ha davvero bisogno, non si potrà che essere travolti dal discorso del capitalista in cui tutte le volte si crede che la vera soddisfazione sia la prossima, salvo poi deprimersi e ripartire.

Ecco cosa è per me l’esperienza analitica. Esperienza singolare, ovvero non tecnicamente riproducibile, che prova a staccarsi da questo discorso dominate mettendone in luce le contraddizioni esistenti. Esperienza che parte dalla singolarità della parola, che la provoca nelle sue pieghe e nei suoi giochi, che permette di svelarsi. Esperienza che non tratta l’altro come un cliente, un paziente, un malato ma che, al contrario, lo abilita come vero soggetto supposto sapere. Esperienza, infine, che si mette sulle tracce della verità e che impara a godere di quelle tracce senza volersene impossessare. Un po’ come quando si guardano le lucciole nelle notti d’estate: il racconto può proseguire solo se ci si accontenta del desiderio di vederle muovere.