Credersi un (D)Io
Nel centro commerciale erano presenti numerosi giovani, molti dei quali sicuramente minorenni. Stavo accompagnato un amico di Kampala, Uganda, all’interno di uno di questi santuari del mondo occidentale: luci, scritte, musica, persone che si muovevano con sacchetti in una mano e smartphone nell’altra. Il mio amico era leggermente frastornato, si guardava attorno con stupore e qualcosa di simile all’ammirazione. La sua espressione cominciò a cambiare quando vide due ragazzine accendersi una sigaretta. Dopo un po’ di esitazione mi chiese: “Da voi i minorenni possono fumare?”. Io gli risposi di no, che la vendita e il consumo di sigarette sono vietate ai minori di anni di 18. Lui continuò a fissarle con un certo imbarazzo e poi mi disse: “E allora perché non stai facendo nulla? Perché non intervieni per dir loro che non devono fumare?”. Mi venne da sorridere e gli risposi con spontaneità: “Non posso intervenire. Non sono figli miei”. Questa mia risposta gli suonò come assurda perché nel suo paese è responsabilità degli adulti vegliare sui ragazzi, anche se non sono “di loro proprietà”. Al contrario, io non mi ero neanche accorto della presenza di quelle ragazze con la sigaretta in mano e intervenire, spiegando loro che non dovevano fumare, mi sembrava un comportamento completamente fuori luogo.
Questo episodio mi è tornato alla mentre durante un incontro con dei genitori e mi ha fatto pensare al significato che diamo ai termini di “individualismo” e “comunità”. Oggi si sente spesso dire che viviamo in una società caratterizzata da un forte narcisismo, ovvero da una forte attenzione al sé e uno scarso altruismo. Questa definizione, però, nel sottolineare in maniera negativa il comportamento narcisistico, non tiene assolutamente in considerazione il fatto che l’essere umano, per potersi costituire come soggetto, non può fare a meno del narcisismo e dell’immagine che lo specchio è in grado di restituirgli. Senza questa immagine, ovvero l’immagine di sé proiettata nello specchio, non ci può essere soggetto. Nessuna persona può fare a meno di questa immagine che però, come ci insegna Lacan, è strutturalmente presente nell’Altro: l’Io è così alienato da se stesso e, come direbbe Freud, “non è padrone a casa propria”. Il bambino non esiste in assenza di unAltro che lo mette al mondo, lo accudisce e lo accompagna nella sua crescita colorando di significati e parole il suo agire. Proprio grazie a questa relazione con l’Altro il cucciolo d’uomo entra nella parola ed è il parlare che consente di tenere le distanze con la propria immagine, non consentendo al soggetto di farla propria e non permettendogli di “credersi un Io”. La vera questione, pertanto, non sta nella spinta narcisistica ma nello stare coltivando sempre più l’illusione di poter fare a meno dell’Altro, ovvero di ciò che trascende l’Io aprendo alla contingenza del presente.
L’individualismo della nostra società è pertanto, a mio parere, figlio di un tentativo maldestro di escludere l’Altro. Questo è anche il motivo del proliferare delle terapie che incentrano sul verbo volere il cambiamento e che con molta velocità si liberano dei pazienti che non sono abbastanza volenterosi di arrivare ad un cambiamento. Lo stesso meccanismo, a ben vedere, sta schiacciando la nostra società che nell’uccidere lo stato sociale e nel limitare il bene comune sta incoraggiando le persone a fare da sé, a trovare delle soluzioni “private” che escludono la presenza dell’Altro e restituiscono ai singoli tutta la responsabilità, e la colpa, di quanto accaduto. In un periodo in cui gli oggetti valgono solo quando possono essere presi “tutti, subito e gratuitamente” (come mi ha suggerito un mio paziente), l’Altro diventa obsoleto perché non in grado di rispondere a questi canoni. Al contrario l’Altro, per definizione, è sempre altrove e non esiste un Altro dell’Altro in grado di chiudere il cerchio e poter mettere un punto. L’Altro non può essere ridotto ad un oggetto (salvo in alcune situazioni patologiche).
L’individualismo trionfa allora quando ci si illude di poter fare a meno dell’Altro e si crede di essere diventati un Io. La comunità non può che restare colpita da questa modalità di aggiramento dell’Altro e dal proliferare di tanto individualismo. Non è un caso che molti ragazzi giovani oggi facciano fatica a vedere una strada da seguire. Cosa farò dopo le superiori? Cosa farò se non passo gli esami? Riuscirò a trovare un lavoro che soddisfa i miei desideri e quelli dei miei genitori? Il ruolo della comunità, che si articola nel movimento di tutti gli attori che la rendono tale, non è forse quello di fare vedere ai giovani che una strada è possibile? Ma se un professore è troppo incentrato su di sé può indicare una strada ad un suo allievo? Allo stesso modo se un allievo è convinto di essere più preparato del suo professore potrà prendere da lui qualche consiglio? Quando cioè a trionfare è l’Io e l’Altro è vissuto solo come un ostacolo al raggiungimento dei propri obiettivi, è ancora possibile sentirsi parte di una comunità?