Correre

La maratona. O almeno per me è andata così

Fine Marzo 2021. Allaccio un paio di Nike comprate 10 anni prima ma usate molto poco e esco a correre. È un sabato e ho scelto di uscire sul presto per evitare di incrociare troppe persone sulla mia strada. Un po’ mi vergogno di quello che sto per fare, non lo sento mio. Dopo poco, pochissimo tempo, il cuore batte a mille e mi devo fermare a prendere fiato. Riparto, torno a casa a fatica. Lo smartphone dice: 20 minuti di corsa per un totale di 3,32 km. Sapevo sarebbe stata dura, me l’aspettavo, non era la prima volta che iniziavo a correre. Ma non credevo così tanto. Tre giorni dopo, riallaccio le scarpe e esco di nuovo. Mi impongo di andare piano, di non aver fretta, di darmi tempo. Volevo iniziare a correre seriamente, tutto quel parlare di runners durante il Covid mi aveva incuriosito. Davvero si può amare la corsa? Davvero si può soffrire a non correre? Mi sembrava impossibile, ma nello stesso tempo ero curioso. Cosa significa diventare un runner? In più, dopo un anno di pandemia, mi sentivo pesante e avevo voglia di cercare un po’ di leggerezza. Non parlo solo di forma fisica, ma di altro. Avevo bisogno di pensare ad altro, di darmi qualche obiettivo che fosse completamente fuori dalla mia portata. Che fosse altro da me.

Così ho iniziato a correre. Con calma, senza avere fretta, dandomi tempo. I primi 3 mesi li ho usati per raggiungere il traguardo dei 10 km. E poi ho continuato, passo dopo passo, km dopo km, fino ad arrivare esattamente due anni dopo ad aver corso oltre 4.200 km. Alcuni di questi li ricordo molto bene, altri meno, ma sono stati tutti importanti. Correre mi fa staccare la testa, non penso a nulla se non al gesto che sto compiendo e a ciò che mi sta attorno.

La maratona non è mai stata il mio obiettivo, almeno non da subito. Anche perché mi sembrava impossibile spingere il mio corpo fino a quel punto. La mia testa si rifiutava di pensarla quella distanza, era impossibile. Una volta, dopo aver corso una mezza maratona, 21 km, l’idea di farne altrettanti non trovava spazio in me. Certo, ci si può allenare, ma in quel momento non c’era allenamento possibile che mi potesse far considerare l’idea di correre quella distanza.

Poi le cose sono cambiate, quasi all’improvviso. Un amico ha insistito un po’ e a me quella sfida non sembrava più così impossibile: andare a Parigi nel 2023. Qualcosa era scattato dentro di me. Probabilmente i km fatti, il far parte di una squadra di corsa in cui sentivo parlare di maratona, il confronto con chi, quella distanza, l’aveva già corsa numerose volte. Non lo so.

Una maratona non la corri il giorno della gara. Inizi molto prima. Prima anche degli allenamenti specifici. Inizi a correrla quando ancora non lo sai, che la stai correndo. Quando corri senza obiettivi, quando ti alzi la mattina presto per fare allenamento, quando in vacanza esplori i posti con le scarpe da corsa ai piedi, quando prepari le gare da 10 km. Poi, un giorno, decidi che farai la maratona ma quel giorno è solo quello in cui cominci a pensarla. Dopo inizi a fare gli allenamenti specifici, quelli in cui allunghi la domenica spingendoti dove non ti eri mai spinto e fai delle ripetute (distanze ripetute con un riposo tra una e l’altra) mai fatte prima. Ma la tua maratona l’hai iniziata a correre molto prima.

Fino a quando, circa due settimana prima della gara, il mio allenatore mi dice che la preparazione è finita, che adesso non mi resta che correrla, la maratona. Perché da quel momento in avanti bisogna recuperare, scaricare, alleggerire. Basta fare allenamenti che stancano, basta aggiungere fatica, ciò che fatto è fatto. Così, in quel momento, sento all’improvviso che una parte della maratona, quella in cui la preparo, è già finita. Ed è strana come sensazione. Perché uno si aspetta di arrivare alla gara che non l’ha ancora corsa quella gara, mentre ti trovi due settimane prima con la sensazione di avere già corso almeno tre quarti di gara. O almeno per me è stato così. Sentivo nostalgia per una gara che non avevo corso. Incredibile.

Poi arriva il giorno della gara. Sveglia all’alba, colazione, metropolitana. Parigi è magnifica, Parigi invasa da oltre 52000 corridori è incredibile. Alle 6 e mezza del mattino la metro è piena di persone come me che stanno andando a correre una gara che hanno già corso, almeno in parte. Silenziosi, colorati, spaventati, curiosi, divertiti. Mi cambio e entro nella mia griglia di partenza. Quella in cui ci sono tutte le persone che hanno previsto un tempo come il mio o hanno già fatto maratone con quel tempo in passato. Li guardo, non posso farne a meno, mentre sento parlare lingue da tutto il mondo. Davanti a noi, partono i primi. Sono gli atleti d’élite, i top runners, quelli che finiranno la maratona quando gli ultimi dovranno ancora partire. Poi tocca a noi. Siamo dietro a una corda azzurra e lentamente ci avviciniamo alla partenza. Davanti ai nostri occhi, gli Champs Elysées vuoti. In sottofondo, una musica finalmente lenta. Lo speaker annuncia che stiamo per partire noi, quelli che hanno come obiettivo lo stare sotto le 3h15. Prima in francese, poi in inglese. Vi siete preparati per questo giorno e quel giorno è ora, dice. Io ripenso a quando ho iniziato a correre due anni prima, quel giorno in cui non lo sapevo ma avevo iniziato a correre la maratona. Ripenso a chi mi è stato vicino, alla mia famiglia, al mio allenatore, ai miei amici e compagni di squadra. Poi mi guardo attorno, di nuovo, e vedo in quegli sguardi provenienti da ogni parte del mondo qualcosa di simile a quanto sto vivendo io. Chissà che cosa hanno lasciato a casa, chissà da dove sono partiti, chissà quali demoni da sconfiggere si portano dentro. E mi scende una lacrima. Maledette emozioni, penso. Piangere prima di una gara che devi ancora correre ma che hai già corso per 3/4. Ma questo è il bello, alla fine. Altrimenti sarebbe solo una prestazione fisica e per me non è così.

Quando sento lo sparo comincio a correre e ho la sensazione che quei 42 km che mi separano dal traguardo non siano poi così tanti. La maratona è solo la parte finale, il resto l’ho già corso. Lungo il percorso, una festa incredibile di persone che urlano, cantano, ballano e ti incitano. Un cartello mi fa particolarmente sorridere, diceva così: Hey runner, se ti vedo collassare stai tranquillo..metto in pausa il tuo Garmin! Dopo un po’ il traguardo arriva, è finita. Non piango, ho già pianto alla partenza. Sono contento di essere arrivato, nelle foto appaio sorridente nonostante la fatica, e mi ritrovo a pensare con nostalgia a una cosa strana, stranissima, che mai mi sarei aspettato.

Quando, la prossima?

Grazie a Nicola Giannone, il mio allenatore. Senza di lui non credo sarei stato in grado di correre questi 42 km. Grazie a tutta la squadra di Giannone Running perché quando ho iniziato a correre pensavo che per correre non ci volesse una squadra ma ora penso il contrario. E grazie a Felicina Biorci che mi ha aiutato con la dieta giusta.