Psicoanalisi

Le parole vuote della politica

Resto spesso senza parole di fronte al teatro che la politica sta mettendo in scena da un po’ di tempo a questa parte. Un luogo in cui la parola non vale se non per la sua funzione strumentale e che, proprio per questo, può essere manipolata con estrema facilità. Una parola vuota, priva di un soggetto che se ne assume la responsabilità etica, è una parola che ha lo stesso valore di una parola mai pronunciata. Proprio per questo assistiamo con molta facilità a persone, non per forza politici, che dicono che la propria parola è stata fraintesa, che non voleva dire questo, che non ha mai detto una determinata cosa. Ma il punto non sta qui. Nel senso che se la parola fosse nel fraintendimento, se cioè fossimo di fronte alla dialettica tra soggetti, almeno ci sarebbe la possibilità di proseguire nel discorso, di svelarne le ambiguità, di correggerne il tiro. No. Qui siamo di fronte alla parola vuota, che è detta ma non detta, che è utilizzata solo per il suo valore comunicativo, per poter cioè essere strumentale all’immagine di un partito o di un movimento politico (che al momento direi siano sinonimi per dire la stessa cosa).

Il detto assumersi la responsabilità del proprio dire, che in qualche modo collegava un soggetto alla propria parola, oggi non ha grande importanza. Al contrario sembra piuttosto che il teatro della politica, che purtroppo è lo stesso in cui si esprime la nostra società, non voglia assumersi questa responsabilità per poter meglio piegare la parola al proprio volere. Capita così di leggere post su Facebook (e non sui siti istituzionali) di sindaci che non si assumono alcuna responsabilità delle dinamiche relazionali interne al proprio mandato, ma che al contrario attaccano l’altro alludendo a delle responsabilità a cui quest’altro sarebbe venuto meno. Tra l’altro, cosa assai curiosa, la parola si svuota di significato proprio in un periodo in cui assistiamo ad un abuso della parola scritta. Verba volant scripta manent, ci suggerivano gli antichi e mi ricordava la mia professoressa di lettere al liceo quando voleva che non scappassi dai miei errori. Oggi non sembra essere così. L’abbondare della parola scritta, più che significare qualche cosa, sposta piuttosto l’attenzione, confonde, dice tutto e il contrario di tutto, comunica ma nel senso più povero con cui possiamo intendere la comunicazione. In pratica fissa per sempre l’assenza di soggetto, permettendo a chi ha scritto di dire che non è lui che ha scritto, che l’altro è malizioso e ha interpretato male, che la scrittura crea fraintendimenti. Ribadisco che se fossimo di fronte a fraintendimenti saremmo molto avanti. Il problema è ci troviamo confrontati ad un fraintendimento strumentale, ovvero all’idea di poter piegare la parola a proprio piacimento.

La parola piena, per quella che è la mia esperienza di studio e di clinica in ambito psicoanalitico, non è mai piegata al volere di un soggetto pur essendo sempre una sua espressione. La parola acquista significato, nel senso che dice qualcosa, proprio quando il soggetto se ne assume la responsabilità, quando cioè si accorge che ciò che sta dicendo gli appartiene pur non potendo del tutto padroneggiarlo. Non è una parola che serve a, quanto piuttosto una parola che dice qualcosa e che si indirizza ad un Altro.

Proprio quello che manca oggi sul teatro politico. Per questo mi arrabbio, non so cosa dire, mi sento confuso. Fortunatamente non tutto è così, ogni tanto ci sono delle aperture di senso degne di nota, ma temo che un certo uso strumentale della parola obblighi anche chi ne avrebbe volentieri fatto a meno a scendere su quello stesso campo. Perché di fronte ad una parola vuota, che vuole solo essere strumentale al raggiungimento di un obiettivo e che quindi può tranquillamente virare andando in tutt’altra direzione, una politica che voglia davvero prendersi la responsabilità del suo dire resta in parte tagliata fuori. Perché chi riduce e semplifica tutto alla logica del bene e male,  del bianco e nero, del giusto e dello sbagliato, non accetta di confrontarsi con chi cerca di cogliere la complessità della sfera umana e quindi sociale. Purtroppo oggi vince questa logica morale, quella della parola vuota che pensa di poter arrivare prima all’obiettivo e che crede che tutti gli altri siano in malafede perché complicano le cose.

E’ questo il problema dell’uomo moderno, come dice Lacan quando nel suo seminario sulle Psicosi, nella lezione XV, scrive che siamo ridotti a restare paurosamente nel conformismo, temiamo di diventare un po’ folli quando non diciamo esattamente quello che dicono tutti gli altri. Forse dovremmo partire da qui. Da cosa significhi assumersi la responsabilità del proprio dire. Sarebbe un gran bel passo in avanti, un modo per cogliere che se pensiamo di sapere tutto, di avere chiaro ogni aspetto, di sapere con esattezza cosa è bene e cosa è male, possiamo essere certi di essere sulla cattiva strada.