Come ci tracciano i social network?
I social network sono entrati con prepotenza a fare parte della nostra vita. Come ci tracciano? Che informazioni cercano e come le rivendono? Come fanno a sapere tutto di noi? Soprattutto, perché glielo permettiamo? In questo articolo parlo di come Facebook e Twitter sono entrati nella mia vita
“Facebook ci osserva, e poi usa quello che sa di noi e del nostro comportamento per vendere pubblicità. Non credo che esista uno scollamento più totale tra ciò che un’azienda dice (“mettere in contatto”, “costruire comunità”) e la realtà commerciale.” Leggendo John Lanchester su Internazionale n.1222 non si può che provare un certo disagio. Fin dal titolo, “La merce sei tu”, risulta evidente una verità che più o meno tutti conosciamo: Facebook, ma in generale tutte le grandi aziende che offrono servizi sul web, ci traccia e l’enormità del suo guadagno dipende da tutte le informazioni che noi le andiamo a consegnare ogni giorno. Eppure, nonostante questo pensiero possa provocarci un certo disagio, non siamo disposti ad abbandonare Facebook, Twitter, Instagram o a smettere di usare Google come motore di ricerca.
Lanchester, in questo bell’articolo che consiglio vivamente di andare a leggere, continua nella sua documentata analisi aggiungendo che “come se non bastasse, le informazioni sugli utenti non sono usate solo per mandargli pubblicità online, ma anche per determinare il flusso delle notizie”. Anche questa per molti è una non notizia. Lo sappiamo bene che il nostro newsfeed si basa su ciò che Facebook vuole che noi vediamo. Eppure, anche in questo caso, continuiamo a far scorrere il pollice sullo schermo senza troppo preoccuparcene.
Ci sono utenti, sul mio profilo Facebook, che non sono propriamente amici. A dire il vero, alcune persone non so neppure chi siano, non le ho mai viste in faccia. Potete certamente rimproverarmi per questo comportamento irresponsabile visto che uno dei principi saldi dell’educazione digitale nelle scuole è quello di “accettare le amicizie solo delle persone conosciute”. Ma non penso di essere l’unico e, soprattutto, ritengo che sia quasi impossibile limitare i contatti alle persone conosciute.
Per un po’ di tempo ci si riesce, diciamo le prime due/tre settimane. Ma poi la potenza dell’algoritmo di Facebook è troppa e comincia a proporti persone, contenuti e commenti di persone che la pensano come te, che dicono quello che avresti detto tu, che condividono i tuoi interessi, amici di amici dei tuoi amici…e allora cedi e comici ad allargare la tua comunità, a far entrare perfetti sconosciuti, a godere della tua cerchia allargata di contatti che Facebook celebra congratulandosi con te. Facebook ti fa venire voglia di essere popolare e dopo un po’ ti lasci prendere da questo vortice e cominci a farti guidare dai suoi algoritmi. Del resto, il suo obiettivo è chiaro: cerare contatti tra le persone, invogliarti a interagire e a cedere qualche cosa di tuo per regalarlo a loro!
Ad esempio, ho sempre pensato che per via del mio lavoro, sarebbe stato opportuno tenere nascoste le mie preferenze politiche e la mia squadra di calcio. Su Twitter ho ceduto dopo qualche anno. Con il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso la mia timeline si è riempita di tweet che invitavano a votare sì oppure no. Inizialmente ho fatto finta di niente ma poi il dibattito politico si è scaldato sempre di più e non ho più resistito.
Per prima cosa ho eliminato tutte le persone che seguivo che la pensavano diversamente da me. Non sopportavo di leggere pensieri così distanti dal mio, anche se a farlo erano persone che stimavo per altri motivi. Poi ho cominciato a condividere articoli e tweet delle persone che erano più in sintonia con me. Twitter l’ha capito e ha rincarato la dose per cui, ad un certo punto, mi sembrava di essere all’interno di un congresso di un comitato per il Sì pronte a tutto per respingere gli avversari. Il tutto è stato fatto in uno stato di semi incoscienza…intendo dire che improvvisamente sembravano essere saltate tutte le regole che mi ero dato per utilizzare il social network. Devo però dire che, essendomi iscritto nel 2012 a Twitter, sono riuscito a controllarmi per circa 4 anni. Un ottimo risultato.
Facebook, invece, è stato più subdolo. Mi sono iscritto al social di Mark Zuckerberg solo a Maggio di quest’anno e l’ho fatto per motivi professionali. Con l’uscita del libro imminente ho pensato fosse necessario essere su questa piattaforma insieme agli altri 2,1 miliardi di utenti e non restare fuori dalla porta. Ma, anche in questo caso, mi son dato delle regole ferree: solo persone conosciute, no politica, no cose personali, no hobby e interessi, no like gratuiti.
La prima settimana il mio livello di privacy era talmente alto che nessuno poteva trovarmi e la mia newsfeed era praticamente vuota. Così ho cominciato ad allargare le maglie della rete consapevole del vortice in cui stavo per infilarmi….Nel giro di pochi mesi la mia newsfeed è piena di gente che la pensa politicamente come me e Facebook non fa altro che farmi vedere i goal della mia squadra del cuore. Eppure, lo giuro, io non gliel’ho detto. Tutte le volte che mi propone quel video, però, lo guardo con piacere e quando vedo che quello sconosciuto fa un commento politico che a me piace lo leggo soddisfatto. Non metto mi piace, non condivido, ma leggo. E questo basta per far sapere al potente social tantissime informazioni personali su di me.
Ma perché ci succede tutto questo? Perché siamo così facilmente manipolabili quando ci muoviamo sui social? Perché andare a dire ai minori “non accettate le amicizie dagli sconosciuti” è così poco efficace? Perché l’educazione digitale non deve limitarsi ad essere un’educazione allo strumento di tipo cognitivo-comportamentale?
Sono tante le domande che popolano la mia testa. Alcune di queste hanno trovato risposta nel libro Nasci, cresci e posta, scritto con Simone Cosimi.
Certamente Facebook e gli altri colossi della Silicon Valley sfruttano queste nostre debolezze o caratteristiche per invitarci a fornire sempre più contatti e dati. Come dice Lanchester noi siamo il prodotto che loro rivendono e più “ingrassiamo” più ci possono vendere a buon prezzo. Resta da capire il perché ci siamo lasciati prendere da questo meccanismo, che è non solo psicologico ma anche sociale e politico.
John Lanchester scrive che “nonostante tutte le chiacchiere sul mettere in contato la gente, costruire comunità e credere nelle persone, Facebook è un’azienda pubblicitaria”. Forse, partissimo da qui, sarebbe tutto molto più facile da comprendere.