Sul sociale

Alcune riflessioni sul Fertility Day (scusate il ritardo)

Ho deciso di aspettare qualche giorno, di prendermi quel tempo per comprendere di cui parla Lacan nel suo scritto Il tempo logico, prima di provare a focalizzare alcune questioni che la recente polemica sul fertility day ha scatenato.

La prima ha a che fare con la privatizzazione dei figli. Come scrissi tempo fa, quando venne a trovarmi un amico africano mi trovai di fronte ad un bel dilemma. Eravamo in un centro commerciale e lui notò che alcuni ragazzi minorenni stavano fumando. Mi chiese se in Italia era consentito ai giovani fumare e quando gli dissi di no mi rispose che dovevamo andare a dirgli di spegnere le sigarette. Ovviamente non andammo, gli spiegai che in Italia ognuno è responsabile per se stesso, che quei ragazzi non erano figli miei e che quindi non avevo alcun diritto di andare a dirgli cosa fare o non fare. Ma proprio qui si apre il dilemma. Nella nostra società contemporanea sembrerebbe essere in discussione la possibilità di fare riferimento all’Altro, ovvero di riferirsi a qualcosa di esterno a noi, sia esso una persona, un ideale, un’istituzione. L’Altro è colui che ci toglie la libertà di godere liberamente, che ci impedisce di fare ciò che vogliamo, che ci limita nella nostra volontà. Non è l’Altro dell’iscrizione simbolica, che proprio nel porre il limite ci permette di accedere al desiderio singolare. Se ciascuno deve poter fare ciò che vuole, tutto ciò che si pone nella direzione di limitare questo volere è visto in termini negativi. Per questo oggi si fa fatica a parlare di tutto ciò che riguarda il legame tra gli esseri umani: non solo di bene comune, di stato sociale, di welfare ma anche di famiglia e di coppia. Perché in qualche modo per stare dentro ad un discorso sociale bisogna saper accettare il taglio dell’Altro, cosa quanto mai complessa oggi. Anche i figli entrano in questo discorso, non potrebbe essere altrimenti, diventando così essi stessi un bene privato, frutto di una volontà, di una scelta della coppia e in alcuni casi del singolo. In quanto proprietà privata, nessun’Altro può o deve dire la sua. Le conseguenze di questo discorso non sono poche. In primo luogo perché “il peso” di un figlio cade solo ed esclusivamente sui genitori e in alcuni casi solo sulla madre. Il sacrosanto dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, sancito dalla nostra Costituzione, sembra oggi escludere sempre di più l’Altro. Siccome fare figli è una scelta libera, colui che si rende protagonista di una simile decisione deve riuscire a portarla avanti senza recare disturbo agli altri. Se questo discorso non è chiaro, basta osservare cosa succede quando una donna in gravidanza si trova in coda ad una cassa di un supermercato. “Se non le sta bene fare la coda non aveva che da venire un giorno con meno gente” borbotta una signora, “solo perché sei incinta pensi di avere diritto a passare davanti a tutti?” dice un altro. Questo stesso discorso ha delle conseguenze anche sul mondo del lavoro. La donna, che ha scelto liberamente di avere figli, deve poter fare tutto quello che faceva prima di avere figli. Del resto, se non riesce, non aveva che da fare scelte differenti prima di trovarsi in questa situazione. Se un figlio è frutto di una libera scelta, se è un bene privato esattamente come una macchina o una casa, chiunque lo cresca deve poterlo fare senza recare nessun genere di intralcio alle altre persone.

La seconda questione ha a che fare con il calcolo. In una società che vorrebbe calcolare e quantificare tutto, nel tentativo illusorio di eliminare l’errore, gli stessi figli non possono che arrivare in maniera controllata. Oggi un figlio si progetta, lo si inserisce in un foglio di lavoro di excel, si valuta in quale periodo sia meglio crearlo. Questo ha certamente a che fare con la precarietà lavorativa ma se ci limitassimo a questo discorso non aggiungeremmo nulla di nuovo. Dobbiamo invece provare a riferirci al bambino come costo e, ancora una volta, al bambino come bene privato. Da un certo punto di vista, sostenere che il bambino è un costo, non è del tutto sbagliato ma occorre intendersi su cosa intendiamo con costo. Non posso fare a meno di notare che solo qualche decennio fa, anche qui da noi, i figli erano considerati forza lavoro: non ci si poneva limite al loro numero perché avrebbero arricchito, con il loro lavoro, la famiglia. In Uganda, da dove viene l’amico di cui ho parlato poco sopra, proprio perché i figli sono ancora forza lavoro per la famiglia, l’alta mortalità infantile porta molti genitori a decidere di fare qualche figlio in più. Sembrerebbe allora che siano stati i progressi avvenuti in vari ambiti della vita sociale a trasformare i figli da forza a costo, da  una risorsa che aggiunge a una che toglie. Tutto questo ha ovviamente degli aspetti positivi, ma come scriveva Freud in maniera piuttosto provocatoria nel Disagio della Civiltà

A che serve la riduzione della mortalità dei bambini, se ci obbliga alla massima cautela nel procrearli, così che tutto sommato non ne alleviamo di più che nei tempi antecedenti al trionfo dell’igiene, mentre così facendo abbiamo posto difficili condizioni alla nostra vita sessuale del matrimonio e abbiamo probabilmente lavorato contro i benefici della selezione naturale.   Il disagio della Civiltà, 1929

Il bambino diventa un costo, dicevamo, e questo passaggio, al di là delle provocazioni, restituisce dignità al cucciolo d’uomo. L’uomo non si riproduce come un animale, la parola irrompe sull’istinto umanizzandolo e creando le condizioni per poter arrivare alla singolarità di quel nome proprio che rappresenta il taglio singolare di ciascuno. Il problema si presenta nel momento in cui il costo diventa solo quello economico, quando cioè il costo del bambino è quello assoluto dell’economia. In questo modo, con un passaggio inverso, si rischia di tornare ad eliminare quella singolarità di cui parlavo prima perché è il denaro a dire se un bambino può arrivare o no, cosa può o non può fare. Pensare al bambino in termini economici significa ritenere che ciò che conta non è ciò che una madre e un padre saranno in grado di donargli, ma ciò che potranno comprargli. Significa inscrivere il bambino ancora prima della sua nascita all’interno del discorso del capitalista di cui parla Lacan, ovvero in quel fragile legame tra esseri umani che esclude l’Altro pensando che l’unica cosa che conti sia la soddisfazione del proprio bisogno. Qualche decennio fa, e alcune persone anziane lo fanno ancora, non si diceva “ho avuto un bambino” ma “ho comprato un bambino”. Un’espressione che da un lato sottolinea l’impegno del genitore, dall’altro toglie il bambino dalla posizione di costo: una volta comprato può essere finalmente un essere umano e non più una voce di spesa.

Infine, la terza questione (anche se nei miei appunti erano molte di più), ha a che fare con la parità. La campagna sulla fertilità ha fatto riferimento alla donna e non all’uomo, come se la questione riguardasse solamente l’universo femminile. Ha cioè ridotto tutta la questione della maternità, e quindi anche della genitorialità, all’atto della procreazione, che chiaramente non può che essere solo femminile. La stessa scelta del termine fertilità ha acceso i riflettori sulla donna e non sull’uomo, per quanto la questione riguardi entrambi. In un certo senso, questa campagna, ha fatto proprio ciò che non doveva fare: ha cioè sottolineato la privatizzazione  femminile dei figli. In un certo senso è come se avesse detto: “tu donna sentiti libera di fare ciò che credi, ma sappi che i figli non sono solo affare tuo ma riguardano tutta la nostra società”. Si intuisce bene la pericolosità di questo messaggio che non fa altro che sostenere, pur volendolo negare, che il figlio è un bene privato della donna. Gli stessi slogan lanciati per difendersi da questa campagna, come ad esempio “l’utero è mio e me lo gestisco io”, non aiutano realmente ad affrontare il problema ma, al contrario, lo spostano e paradossalmente lo affondano sempre di più. La maternità, per come la intende una certa psicoanalisi, non è mai una questione solo femminile. Il desiderio di una madre, in quanto anche donna, non si può e non si deve esaurire nel figlio. La clinica ci insegna che è proprio dall’esclusività della coppia madre-bambino o, all’opposto, dal rifiuto di questa esclusività che si genera la patologia. La maternità ha bisogno della presenza dell’Altro, della parola del padre che permette al bambino di entrare nell’universo simbolico e alla madre di accorgersi che lei desidera anche altro oltre al bambino. Quando parlo di padre, non mi si fraintenda, lo faccio riferendomi a Lacan e quindi al fatto che sia possibile la presenza di un padre anche in assenza nella realtà di un uomo di sesso maschile. Ridurre tutta la questione alla donna e alla madre, pertanto, è un grave errore. Ma lo è non tanto perché tra uomo e donna ci deve essere parità. Io sono più propenso a parlare della necessità di salvaguardare la differenza tra l’uomo e la donna, perché è solo a partire da essa che possiamo continuare a relazionarci tra di noi. Ma è proprio perché esiste differenza che la maternità, e quindi anche la genitorialità, riguarda entrambi e non solo la donna. Solo a partire da questa differenza si può ragionare con molta più serenità sulle politiche da adottare per consentire, anche nella nostra società, all’uomo e alla donna, di continuare a mettere al mondo figli.