Perché corri?
Chi corre lo sa che non è solo una questione di tecnica. Per correre, per allenarsi con costanza e determinazione, c’è bisogno anche di altro. Vale per i professionisti come per gli amatori, per chi pratica jogging nelle stagioni primaverili e chi si allena per correre una volta all’anno la gara del paese. Nella corsa, oltre alla tecnica, è presente una forte componente mentale che può fare la differenza a prescindere dai propri obiettivi.
Ma come dicevo in apertura, chi corre lo sa. I km percorsi, i momenti di solitudine incontrati, il rapporto intimo con la propria fatica e sofferenza insieme alla continua scoperta dei propri limiti, permettono di accedere a parti della propria persona che altrimenti resterebbero in ombra. Oppure sconosciute.
Non sempre però si è in grado di accogliere e trasformare tutto questo in qualcosa che aiuta a migliorare non solo le proprie prestazioni ma, lo dico senza paura, la propria vita. Pur sapendo che la corsa non può fare a meno della mente non riusciamo a esserne del tutto consapevoli. Non riusciamo a trovare uno spazio a quel rumore di fondo che ci accompagna.
Le origini della psicologia dello sport
Facciamo un piccolo passo indietro. Anche se la psicologia, più spesso purtroppo dobbiamo parlare di pseudo-psicologia, applicata al contesto sportivo sembra essere una disciplina nuova, troviamo le sue origini sul finire del 1800. Le prime ricerche in questo ambito, infatti, risalgono a questo periodo. Inizialmente si studiava il comportamento dello sportivo non per migliorarne la prestazione, ma per conoscere il comportamento di una persona quando si trova in un contesto sportivo.
Negli anni ’60 del secolo scorso, più precisamente nel 1965, viene poi costituita a Roma l’Internationl Society of Sport Psychology e la psicologia dello sport ha cominicato sempre più a scendere in campo e dedicarsi anche agli aspetti prestazionali: in che modo si può aiutare un atleta a migliorare i suoi risultati? Parliamo dunque di un ambito applicativo specifico della psicologia su cui possediamo già una grande mole di ricerche ed esperienze pratiche. Senza contare che, oltre al contesto applicativo specifico, abbiamo tutte le conoscenze legate più in generale alla psicologia.
Per capire meglio in che modo la psicologia dello sport può essere utile agli sportivi, ma più in generale alla nostra società, possiamo immaginare che si muova in due direzioni principali. La prima si concentra sulla prestazione, mettendo le diverse conoscenze e competenze psicologiche a servizio di essa. Si parte dalla persona, dal suo essere e dalle sue emozioni, per lavorare e modificare il suo modo di approcciare all sport. È questo un lavoro delicato, perché al centro del lavoro di uno psicologo c’è sempre e comunque la persona, non la sua prestazione.
La seconda direzione si concentra invece sul benessere che lo sport può portare a chi lo pratica. In un movimento che è quasi speculare a quanto delineato poco sopra, si parte dalla pratica sportiva per andare a vedere in che modo può portare benessere alla persona. Certamente queste due direzioni possono incrociarsi e trovare dei punti di incontro in chi pratica sport ma è bene averle bene in mente perché cambiano le domande, e di conseguenza le risposte, che ci si pone quando si allacciano le scarpe e si comincia a correre.
Porsi delle domande
Conoscersi, avere in mente il perché stiamo facendo una determinata attività e quali obiettivi abbiamo in mente, è dunque fondamentale per ottimizzare lo sforzo che stiamo chiedendo al nostro corpo. Se si corre tanto per, senza porsi domanda alcuna, difficilmente si otterranno risultati. E non parlo qui di prestazioni sportive, ma anche di quella percezione del benessere che può risultare dal praticare un’attività motoria.
Correre una volta ogni tanto, ad esempio, non solo può risultare faticosissimo ma può avere effetti devastanti per la propria autostima. “Sono a pezzi”, “il mio fisico non mi regge più”, “non fa per me”, “sto invecchiando male”, sono solo alcuni dei pensieri che potrebbero nascere da una cosa sporadica e senza meta che non aggiungono nulla alla persona. Anzi, se mai tolgono qualcosa. Stesso discorso, ormai l’abbiamo capito, per chi si allena duramente senza però riuscire mai a migliorare o arrivare dove vorrebbe. Forse il problema non sta nella prestazione ma nella mancanza di una direzione che condiziona inevitabilmente anche il suo modo di allenarsi e i suoi pensieri quando corre.
Il punto quindi è: sappiamo davvero dove vogliamo andare quando corriamo? E, soprattutto, perché? Quali sono i nostri obiettivi a breve e a lungo termine? Che tipo di sensazioni ricerchiamo e quali invece non vogliamo provare?
Sono alcune domande preliminari, ne avrei potute scegliere altre, che trovano posto mentre corriamo. Ho letto da poco un bel saggio di Nicolò Rubbi dal titolo molto significativo: “Silenzio di bosco, rumore di sé. Correre per inventariare il dolore” pubblicato da Mimesis. A un certo punto, nel raccontare la sua prima gara (la Marcia dei Tori, tra il Corno alle scale e il Monte Cimone, 15 km 1000+), Nicolò ci fa un regalo importante. Ci fa entrare, con molta leggerezza e accuratezza, nella sua mente.
“Al dodicesimo chilometro di quindici ero stremato. Mentre salivo un sentiero a gradoni fatto di legni incassati nella terra e fissati da due ferri verticali mi sentivo mancare. Nonostante la fatica, continuavo alla mia velocità di crociera, mediocre ma pur sempre costante. D’un tratto pensai: Non ce la faccio; e nell’istante esatto in cui processai questo pensiero, mi sentii addosso un contraccolpo, come il rinculo del freno motore sull’auto che scende dai tornanti di montagna. Con un’inaspettata lucidità mi resi conto che quelle quattro, piccole paroline mi avevano tolto energie. Fu allora che ebbi una delle prime, grandi occasioni di capire quanto il mio dialogo interiore giocasse – la maggior parte del tempo – a mio sfavore, e quanto le mie prestazioni, seppur umili, ne risentissero grandemente. Decisi di rompere del tutto il vetro lucido di quel silenzio già crepato dall’inizio con una risposta ad alta voce: – Perché mai non dovrei farcela? -. Fu come spingere per un istante la frizione, scivolando veloce per inerzia fuori dalla lotta tra accelerazione e freno motore. Se ero io a sabotarmi, potevo essere io a sostenermi”
Eccole qua, raccontate con quella semplicità che tradisce la complessità delle questioni, le domande che ci guidano e che, volenti o no, influenzano le nostre prestazioni. Qualunque esse siano, lo ribadisco. Conoscerle può farci crescere di più e anche migliorare. Ormai è chiaro a tutti che quanto più riusciamo a sostenerci e a non sabotarci tanto più possiamo esprimere il nostro potenziale sportivo ed essere felici, fieri, di noi stessi. Se abbiamo il potere di sabotarci, abbiamo anche quello di sostenerci.
La corsa, per come la vedo io, può essere l’occasione per arricchirci come persone. E la nostra mente può aiutarci a massimizzare il guadagno e a portarlo anche fuori, quando cioè togliamo i vestiti tecnici per metterci quelli di tutti i giorni.
Per questo la corsa non è solo una questione di tecnica. Ma chi corre lo sa. Solo che metterlo a fuco è più complicato.