Adolescenza,  Sport

Sull’importanza dello sport in età giovanile

Cosa accade quando, con la crescita, lo sport assume un ruolo sempre più centrale fino a trasformarsi in attività agonistica? In questo secondo articolo (qui il primo) parlo dell’importanza dello sport durante l’infanzia e l’adolescenza, e comincio a mettere in luce alcune alcune questioni critiche che impediscono ai minori di fare sport o di viverlo nel giusto modo. Tra queste, anche un certo modo di intendere l’agonismo.

“Aiuta il fisico, influenza positivamente il carattere, è un potente moltiplicatore di esperienze sociali: per questo lo sport nella vita dei bambini deve essere parte integrante del processo di crescita. Sin da piccolissimi”. Con queste parole si apre un importante documento firmato dalla SIP, la Società Italiana di Pediatria, intitolato Lo sport e il bambino: perché, quando, quanto, come (2019). 

Fare sport, soprattutto durante l’infanzia, quando oltre ad avvenire un maggiore sviluppo psico-fisco si consolidano le buone e le cattive abitudini, non è solo importante ma  necessario. Detto in altre parole, non se ne può fare a meno. Discorso che dobbiamo allargare il più possibile per poter apprezzare tutti i vantaggi che l’attività sportiva può portare all’essere umano in formazione. Parlare di sviluppo psico-fisico significa infatti considerare gli aspetti più strettamente fisici/cognitivi, ad esempio l’equilibrio, l’integrazione degli schemi motori, la percezione del proprio corpo in relazione allo spazio, insieme a quelli di tipo psicologico, tra cui troviamo l’autostima, l’auto-determinazione, il credere nelle proprie capacità. Più in generale possiamo dire che “giocare” con gli altri bambini mettendo in campo ciò che si è appreso da un punto di vista motorio restituisce al bambino e alla bambina un’immagine di sé che può essere positiva o negativa a seconda delle situazioni che si vengono a creare. 

Porto un esempio clinico che prendo dalla mia esperienza professionale. Un uomo di quasi sessant’anni, venuto in terapia per problemi legati a depressione e ansia, mi riporta di essere sempre stato un bambino “negato per lo sport”. Fin da piccolissimo, infatti, ricorda di essere stato incapace in questo ambito e che per questo motivo i suoi genitori non gli hanno mai proposto di svolgere attività sportive di alcun tipo. Ha provato un paio di volte, ma non riuscendo, ha smesso subito. Questo suo ricordo di “incapacità”, ancora molto vivo e presente in altri aspetti della sua vita, lo ha portato a vivere con molta sofferenza il periodo delle scuole elementari e della scuola media. Gli altri bambini erano infatti molto atletici, o almeno questo è il suo ricordo, e lui era sempre tagliato fuori dai loro giochi e spesso anche dai ritrovi pomeridiani al parco. La situazione è poi migliorata con il passaggio alle scuole superiori, quando le sue abilità cognitive e intellettuali sono diventate più importanti all’interno della carriera scolastica andando a compensare la dimensione fisica. Il fatto di prendere bei voti gli restituiva finalmente un’immagine di sé migliore ma nonostante questo resta dentro di lui un’idea diffusa, e non legata solo allo sport di non essere capace e di essere negato a svolgere qualsiasi attività. 

Questo piccolo racconto clinico, tratto come detto dalla terapia di un uomo di circa 60 anni, ci fa toccare con mano l’importanza di pensare allo sport e all’attività motoria non come a un’attività facoltativa, che può essere svolta solo da chi è più dotato da un punto di vista fisico e ha magari la prospettiva di diventare un atleta professionista. L’attività sportiva, soprattutto durante il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, deve andare oltre il risultato o la predisposizione fisica, deve riguardare tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze. Deve essere accessibile a tutti. Se possiamo giustificare quanto capitato al mio paziente, visto che il suo ricordo risale all’incirca agli anni ’70 del secolo scorso, è grave che qualcosa di simile venga raccontato ancora da chi sta attraversando l’adolescenza oggi. Quando ormai le conoscenze e gli studi a nostra disposizione sono numerosi e non è più possibile pensare all’attività sportiva in maniera così riduttiva. 

Pensando all’accessibilità allo sport, ad esempio, questa ricerca di Openpolis ci fornisce due indicazioni piuttosto interessanti. La prima è che i motivi economici sono spesso la causa che impedisce ai bambini e alle bambine di fare sport. Lo dicono  il 30% dei genitori dei bambini tra i 6 e i 10 anni che non praticano alcuno sport e il 20% di quelli tra gli 11 e i 17 anni. I costi dello sport devono diventare più sostenibili se si crede nell’importanza dello sport. La seconda indicazione si riferisce invece alla mancanza di interesse e di tempo, due variabili che sappiamo essere strettamente legati. Molti minori non praticano attività sportiva per questo motivo e sarebbe quindi il caso di chiedersi se tutto questo non sia da imputare anche al modo in cui viene presentato lo sport ai più piccoli. Intendo dire che spesso viene messo da parte l’elemento “gioco” per dare spazio solo alla competizione, al risultato, al successo, all’agonismo. A tale proposito alcuni miei pazienti che frequentano la secondaria di primo grado mi hanno riportato di non essere riusciti a trovare una squadra in cui poter giocare, ad esempio a basket, senza fare agonismo o al contrario di non aver potuto iniziare un nuovo sport perché, partendo da zero, nelle squadre non c’era posto per loro. Abbiamo però tutti bisogno della dimensione ludica, a maggior ragione in ambito sportivo e toglierla, oppure nasconderla dietro alla dimensione agonistica, significa snaturare l’idea stessa dello sport che è soprattutto gioco e divertimento. Questi discorsi, hanno ancora più peso se pensiamo che gli spazi e i momenti in cui i bambini giocano liberamente all’aperto, ad esempio a un parco, sono drasticamente diminuiti negli ultimi anni.

Lo sport, come detto, contribuisce a un sano e corretto sviluppo psicofisico, che potremmo riassumere in “qualità fisiche come la prontezza di riflessi, la rapidità di risposta agli stimoli, la resistenza, la forza, il rilassamento e la potenza, nonché altrettante importanti qualità psicologiche ed etiche come il coraggio, l’abnegazione, la padronanza di sé e la perseveranza”. Oltre a tutto questo contribuisce alla formazione e alla trasmissione di valori fondamentali per la singola persona e, di conseguenza, per l’intera società. Vediamone alcuni:

  • La cooperazione nella competizione
  • Lo spirito di gruppo
  • La disciplina personale
  • La condivisione e il rispetto di regole precise
  • La tolleranza e il rispetto reciproco 
  • La lealtà

Attraverso il gioco, lo sport contribuisce alla trasmissione di questi valori ed è quindi più che evidente l’importanza di una sana attività motoria fin da più piccoli. Anche perché il modo migliore per trasmettere un valore educativo è farne esperienza e testimoniare attraverso il proprio modo d’essere. Questo significa che lo sport nel coinvolgere la persona a 360 gradi  può diventare un veicolo di buoni valori, utili ovviamente in tutti gli ambiti della vita e non solo in quello sportivo. Prendiamo ad esempio la lealtà. Facendo sport si impara a confrontarsi con i propri limiti, a riconoscere il valore di un avversario pur tentando di superarlo e batterlo, si collabora con l’allenatore e i compagni per trovare una strategia che consenta di fare il meglio possibile, si accetta, infine, il risultato quando è positivo ma soprattutto quanto è negativo per ripartire e cercare di superarsi nuovamente. Imparare tutto questo praticando sport significa poterlo applicare a tutti gli altri ambiti della vita che vanno dalla scuola alle relazioni al più in generale, ma non troppo, rapporto con se stessi.

Quanto è importante, ad esempio, accettare i propri limiti e lavorare per superarli? 

Tutto questo rischia però di venire meno se lo sport viene “ridotto” a mera competizione diventando soltanto un modo, l’ennesimo, con cui cercare di eccellere. Oppure, il discorso non cambia, se l’obiettivo delle società sportive e delle organizzazioni non è quello di creare le basi per la costruzione di un buon progetto educativo che aiuti i minori a crescere e a divertirsi ma, al contrario, di vincere subito, trovare i “campioni” di domani, non pensare ai processi ma solo al risultato, fermarsi alla valutazione di tipo economico. Quando lo sport giovanile si riduce a questo perde completamente la sua spinta educativa e di trasmissione di valori diventando l’ennesimo luogo in cui cercare la prestazione a discapito di tutto il resto. Non è qui in discussione il valore che lo sport a livello agonistico può avere per la formazione degli individui. A dovere essere criticato è invece una certa idea di agonismo, proposto sotto svariate forme fin da quando i bambini sono piccoli, che rischia di fare del male più che del bene perché allontana o non fa proprio avvicinare a quei valori che lo sport può veicolare.