Adolescenza,  Recensioni

Un vuoto angosciante che parla a tutti noi

Alcuni libri scavano nel profondo, non ti lasciano in pace e in qualche modo diventano un’ossessione. Ci pensi durante il giorno mentre stai facendo altro oppure la sera, dopo averlo chiuso sul comodino. La tua testa è ancora là, dentro quelle pagine, non vuole uscire. Ripensi a quanto letto, ti interroghi su come sia stato possibile, vorresti trovare quelle risposte che invece faticano ad arrivare. 

La città dei vivi di Nicola Lagioia è uno di questi. Lo dico subito, mi ha profondamente turbato. Ma nello stesso tempo mi ha dato modo di riflettere sulla condizione umana. Per questo gliene sono grato, non credo sia stato un libro facile da scrivere. Per chi fa il mio lavoro, lo psicoterapeuta, poter leggere un libro come questo è molto utile. Oserei dire fondamentale. Apre uno spaccato sulla vita, e sulla morte, che non sarebbe stato possibile trovare da altre parti. 

La vicenda raccontata nel libro è quella dell’omicidio di Luca Varani, 23 anni. A ucciderlo Manuel Foffo e Marco Prato, di qualche anno più grandi di lui. È una storia purtroppo vera avvenuta a Roma nella notte tra venerdì 4 e sabato 5 Marzo del 2016. Luca Varani è stato torturato per ore ed è morto dissanguato dopo che i due complici gli hanno inflitto innumerevoli coltellate e colpi di martello. Una vicenda che lascia senza fiato, difficilissima da raccontare (e da leggere). L’aspetto che lascia ancora più senza parole e che apre a molti interrogativi è l’assenza di un movente. Manuel e Marco, i due assassini, arrivano alla notte dell’omicidio dopo aver trascorso giorni ad abusare di cocaina e alcol, è vero. Ma questo non basta, non può bastare a raccontare cosa è capitato in quell’appartamento.

Lascio perdere la vicenda, chi vorrà potrà leggere il libro, per soffermarmi su alcuni aspetti che per me sono centrali perché in qualche modo parlano a tutti noi. Esiste un limite, nella vita degli esseri umani, che in quei giorni è stato prima superato e poi ignorato, reso nullo. Quando parlo del limite mi riferisco alla legge (legge simbolica del Padre si dice in psicoanalisi), che nel limitare, nel porre una regola, apre le porte del desiderio. Non si può avere tutto, non è possibile. Ma è proprio dalla rinuncia a quel tutto che l’essere umano può cominciare finalmente a desiderare. La legge è certamente sanzionatoria ma è a partire da qui, dalla sanzione, dall’avere toccato il limite, che si può desiderare altro, si può andare oltre e aprirsi al mondo. Lo stesso superamento del limite, a ben vedere, può diventare esperienza di apertura al desiderio. Ma solo se quel superamento non rappresenta un tentativo di rendere nulla la legge, se riesce a riconoscerla in quanto tale. Perché il punto sta proprio qui. Nel riconoscimento della legge. Questo ci rende umani e ci permette di poter fare delle scelte, di assumerci una responsabilità, di sapere a cosa andiamo incontro quando decidiamo di sfidare la legge perché non la riteniamo giusta. Ed è sempre la legge a creare una comunità, a essere il perno attorno a cui le relazioni prendono vita.

Colpisce, nel leggere la vicenda di Manuel e Marco, la totale assenza di legge. C’è un passaggio che Lagioia mette in luce e che per me è cruciale. Di fronte all’interrogatorio con il pubblico ministero, accettato senza avvalersi della facoltà di non rispondere, Manuel sembra quasi cercare nell’Altro, in questo caso il P.M., ovvero l’incarnazione della legge, una spiegazione. Questo il passaggio.  “Nonostante i fatti sembrassero dimostrare il contrario, lui era umano. Ai suoi accusatori Manuel sembrava chiedere di fare luce su ciò che era successo – spiegatemi voi cos’ho fatto, aiutatemi a capire. I delitti di cui si riempivano le cronache avevano come protagonisti individui che si autodeterminavano nelle loro azioni criminali. Qui, al contrario, sembrava che un omicidio violentissimo – proceduto da ore di torture – si fosse consumato a prescindere dalla volontà di chi l’aveva commesso. Non sembrava esserci un movente. Non sembrava esserci un legame emotivo con la vittima”. In questo brano c’è, a mio avviso, l’aspetto tragico. Senza legge salta anche la responsabilità dei singoli e la loro possibilità di scegliere cosa sia giusto fare e cosa no. Ma senza scelta, senza questo atto di responsabilità, ci troviamo di fronte a soggetti senza vita che non riescono a capire il perché del loro agire. 

Non c’è dunque legge, non c’è niente che abbia tenuto, che abbia fatto da Padre simbolico. Si è andati oltre senza accorgersene. O meglio, senza accorgersi di stare barbaramente superando la legge degli uomini. Questo, a ben pensarci, è quanto accade nelle perversioni. Il perverso, da un punto di vista strutturale, è quella persona che piega la legge del padre a suo vantaggio. Per questo il perverso non prova mai senso di colpa. Ma qui, pur muovendoci su questa sottile linea della perversione, ci troviamo di fronte a qualcosa di ancora più spaventoso. Lo ripeto. Il vuoto assordante di una legge in grado, a un certo punto, di fare presa, di tenere.

Ecco spiegato il motivo della mia ossessione. Ecco in altre parole il perché questo libro mi ha scosso e mi ha fatto pensare ad alcuni tratti angoscianti del periodo che stiamo vivendo. Ho la sensazione, ci tornerò certamente con altri scritti più approfonditi, che questo caso così estremo e violento metta in luce la condizione di tanti ragazzi. Ragazzi in cui si percepisce un vuoto angosciante di punti di riferimento e che cercano in vari modi, con la droga, chiudendosi in casa, praticandosi dei tagli sulle braccia e con tanti altri comportamenti rischiosi quel limite che altrimenti non riescono a vedere. Di questo dovremmo riflettere maggiormente. Perché non può essere la gratificazione, la soddisfazione personale, il successo o il merito l’unica via da seguire. Non può esistere vita, e quindi scelta e responsabilità, senza rinuncia. Senza una legge in grado di segnare un confine. Purtroppo, la mia sensazione è che troppo spesso sia così.