Le difficoltà nel parlare della salute dei ragazzi
Questo articolo è stato pubblicato su Transiti Magazine il 5 Aprile 2021 all’interno della rubrica Giovani d’oggi
Qualche giorno fa, durante una seduta di psicoterapia, un ragazzo diciassettenne mi ha raccontato di non poterne più del Covid e della zona rossa. Lui è uno di quelli che ha rispettato e rispetta le regole, che esce di casa solo per validi motivi e che quindi passa le sue giornate in camera. Ma adesso non ne può più, è molto stanco. Della scuola in epoca Covid, del non stare con gli amici, dell’ansia di essere fermato dalla polizia quando si concede qualche strappo alla regola.
La cosa che più lo fa arrabbiare, mi dice, è che quando prova a lamentarsi si sente rispondere che “la pandemia c’è per tutti”, che non è l’unico a vivere questa situazione e che quindi deve andare avanti e basta. E lui infatti va avanti, ma con fatica. Mi racconta poi che sotto casa sua c’è un piccolo giardino che prima della pandemia era frequentato da bambini e giovanissimi. Non c’era traccia di adulti, se non gli accompagnatori. Ora invece, se si affaccia dalla finestra, le panchine sono state occupate dai “vecchi”. Ci sono solo loro. “Alla fine hanno vinto loro – mi dice – si sono ripresi la città mentre noi giovani stiamo in casa”.
Mentre lo ascoltavo, non ho potuto fare a meno di ripensare al bestseller “Gli Sdraiati” di Michele Serra e alla Grande Guerra Finale, quella tra Vecchi e Giovani, di cui parla nel suo libro. Finita la seduta, sono andato a riprenderlo. “Non so ancora se farò vincere i Vecchi o i Giovani. Ciascuno dei due esiti ha i suoi pro e i suoi contro, dico dal punto di vista narrativo, perché da quello biologico non esistono dubbi: o vincono i Giovani o l’umanità, con tutto il suo glorioso strascico di vestigia, va a farsi fottere”.
Alla fine vinceranno effettivamente i giovani, ma l’esito non è così scontato come potrebbe sembrare. Il libro di Serra narra infatti le vicende di un padre che non riuscendo a capire il figlio adolescente si trova continuamente a giudicarlo, invocando più o meno esplicitamente la superiorità della propria infanzia e adolescenza rispetto a quella del figlio. Quindi sì, vincono i Giovani, ma solo perché in qualche modo i Vecchi rinunciano alla loro superiorità. E i “vecchi”, più in generale gli adulti, ne escono, a mio avviso, con le ossa rotta dalla narrazione di Serra. Incapaci di andare oltre al proprio ego, di ascoltare e guardare in faccia i giovani in tutte le loro magnifiche e complesse contraddizioni.
Sono partito dallo scontro generazionale, dalla Grande Guerra Finale che a ben pensarci non potrà mai esserci perché per fortuna ci saranno sempre dei giovani e degli adulti, per arrivare al tema della salute dei ragazzi. In particolare, di come viene raccontata.
Durante questi mesi di pandemia la narrazione attorno ai ragazzi ha seguito due direzioni. La prima. Poveri ragazzi, sono la generazione Covid, li stiamo segnando per il futuro, stanno male, dobbiamo aiutarli. La seconda. Un po’ di didattica a distanza si può fare senza tante storie, i veri sofferenti sono i ragazzi che vivono in guerra, passano tutto il giorno su Netflix e hanno il coraggio di lamentarsi.
Entrambe queste letture, che ho appositamente esasperato, non ci portano però da nessuna parte. Non sono che il frutto di una generazione adulta che nel primo caso si sente in colpa, nel secondo minacciata. Su Facebook, sotto ogni post o articolo che parla di DAD, disagio dei ragazzi, giovani in piazza nonostante le zone rosse, si possono trovare i commenti che sposano l’uno o l’altro pensiero. Difficile che si vada oltre. Tra l’altro, l’aspetto che trovo più inquietante di questa polarizzazione, è che entrambi i punti di vista sono avvalorati e sostenuti da esperti che raccontano esperienze e presentano dati e ricerche scientifiche che vanno in una direzione piuttosto che nell’altra. Hanno tutti ragione, insomma.
Mi chiedo però se è possibile parlare dei ragazzi, della loro salute, in un modo differente. Se si può andare oltre un certo modo di schierarsi sterile e poco utile a comprendere e soprattutto ad ascoltare. Tra l’altro, dove sono finiti i ragazzi? Perché ho l’impressione che in tutto questo battagliare sul loro stato di salute ci siamo dimenticati proprio di loro. La voce che si sente meno, infatti, è proprio quella dei ragazzi.
“La vita di un adulto non è cambiata più di tanto”, mi dice un altro paziente. “Voi lavorate da casa o come fai te in presenza. E se poi non potete uscire la sera, non vi cambia più di tanto. Magari non uscivate già prima. Per noi è diverso. Noi se non possiamo vederci, se non andiamo a scuola, se non facciamo sport, se non usciamo la sera…insomma che senso ha la vita? A me la notte piaceva tantissimo, dava senso a tutto il resto”. Ma come, ci sono i social network, i videogame, le videochiamate, Netflix…davvero non vi basta?
Il punto è che no, non gli basta. E questo è un tema che come mondo adulto dobbiamo avere bene in mente. Il fatto che le nuove generazioni abbiano molta confidenza con le nuove tecnologie, che passino parte della loro giornate su WhatsApp o sui social e che fatichino a lasciare lo smartphone a casa, non significa che non abbiano interesse per tutto il resto. E in questi mesi di restrizioni “il resto” è diventato per loro ancora più importante. Il resto, che poi sono le relazioni, il tempo passato insieme, le esperienze da condividere è in fondo ciò che ai ragazzi manca di più in questo periodo.
Manca a tutti, vero. Ma l’adolescenza è un discordo differente, non possiamo fare finta di non saperlo. E le tecnologie non sono che un complemento alla vita, un modo per creare relazioni e stare insieme. I ragazzi, questo, ce l’hanno molto presente a differenza di noi adulti.
Come possiamo parlare dunque dei ragazzi e della loro salute in modo diverso? Intanto soffermandoci su quella fase della vita chiamata adolescenza, senza darla per scontata. Il primo a parlarne fu Granville Stanley Hall, nel 1904. Utilizzò questo termine per definire quel periodo della vita in cui un giovane è portato a modificare il proprio modo di stare al mondo per crescere e diventare adulto.
Le relazioni, quindi, non sono un di più, qualcosa che ci può essere oppure no e che quindi le restrizioni di questi mesi, al di là dello schieramento che decidiamo di prendere, hanno un peso differente per un adolescente in formazione e un adulto. Questo discorso, tra l’altro, vale allo stesso modo per quei ragazzi che stanno seguendo la DAD con ottimo profitto e non sentono il bisogno di uscire come per quelli che dicono di non riuscire più a stare dietro al computer e escono di casa non rispettando le regole. Così come vale per quei ragazzi, alcune ricerche stanno cominciando purtroppo a raccontarcelo, che stanno uscendo da questo periodo con le ossa rotta: depressioni, sintomi ansiosi, atti di autolesionismo, tentativi di suicidio. Dovremmo quindi cominciare ad abbandonare i nostri schieramenti, pro o contro i giovani, per stare ad ascoltarli con meno pregiudizio.
Può essere utile anche riprendere la definizione di salute così come espressa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Secondo l’OMS “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o di infermità”. Il fatto che i ragazzi non presentino sintomi, dunque, non è garanzia della loro salute. Allo stesso tempo, qui il discorso si fa più complesso, la presenza di sintomi non è per forza sinonimo di malattia. L’adolescenza, come detto, è un periodo di grandi cambiamenti e certi comportamenti possono essere transitori e non essere il segno di una vera e propria patologia come invece può succedere in età adulta. Anche per questo motivo, è bene avere molta cautela con le diagnosi psicopatologiche in adolescenza. Molto più corretto è leggere il sintomo o il comportamento problematico in funzione dei compiti evolutivi caratteristici della fase che il ragazzo o la ragazza sta attraversando.
La salute dell’adolescente deve quindi essere letta e raccontata a partire da un contesto di riferimento più ampio, che tenga in considerazione anche il periodo della vita che sta attraversando, le relazioni familiari e quelle con i pari. Eppure non sempre lo facciamo. Uno dei comportamenti più sbagliati e diffusi è infatti quello di legare l’adolescente solamente al suo sintomo, al suo comportamento problematico, alla sua devianza giovanile. Ma proprio da qui, da questo punto di osservazione miope e non rispettoso del ragazzo, partono quelle etichette pericolose che a seconda della fazione diventano “poveri ragazzi” o al contrario “dovrebbero provare davvero cosa significa stare in guerra”. Succedeva prima della pandemia, succede ancora adesso.
Continuiamo a non ascoltare i giovani, quindi anche a non riconoscerli, perché non è facile chiedergli come stanno e, soprattutto, stare ad ascoltare le loro risposte magari non in linea con il nostro modo di vedere e pensare. Ma ascoltarli non significa in fondo assumerci una responsabilità? La principale difficoltà nell’affrontare la salute dei giovani, a mio avviso, sta qui. Non si tratta quindi di essere pro o contro i giovani come troppo spesso leggiamo sui social. Perché non sono né poverini né sdraiati. Occorre invece avvicinarci a loro con curiosità e attenzione, senza l’ansia di volerli comprendere, senza voler pensare al loro posto, senza per forza incasellarli in qualche definizione. Solo in questo modo possiamo capire come stanno, cosa gli manca di più, in che modo si immaginano il futuro. Il loro futuro.