Adolescenza

Giovani e riti: la crisi identitaria e la perenne nostalgia per il passato

Questo articolo è stato pubblicato su Transiti Magazine il 19 Aprile 2021 all’interno della rubrica Giovani d’oggi

Avvertenza: “Il presente saggio non è animato dallo struggente desiderio di un ritorno ai riti”. Così scrive il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han nelle prime pagine del suo saggio La scomparsa dei riti. Una topologia del presente. Potrei dire lo stesso anche io: “Il presente articolo non è animato dallo struggente desiderio di un ritorno ai riti” o dalla nostalgia per il tempo passato. Al contrario, desidero interrogarmi sulla scomparsa o meno dei riti nella nostra società e sull’effetto che tutto questo può avere sui ragazzi. 

I riti, azioni simboliche

Prima di tutto, una definizione: i riti sono delle “azioni simboliche” che “tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità”. I riti creano il sociale in cui viviamo, mettono ordine dove regna la complessità. I riti aiutano il singolo individuo a trovare un proprio posto all’interno della collettività, creano una comunità senza il bisogno di comunicazione. Caratteristica essenziale del rito è la ripetizione, ovvero quel movimento che permette di ricordare qualcosa del passato proiettandolo in avanti. Il presente in cui avviene il rito è quindi una condensazione di passato e futuro. Si differenzia dalla routine per la sua maggiore intensità e per il fatto che la routine non è altro che una ripetizione del presente che non attinge dal passato. Potrei dire che la nostra società, ossessionata dal culto del nuovo e della produttività a ogni costo, predilige certamente la routine al rito. Non è un caso che ad Alexa, la celebre assistente vocale di Amazon, possiamo chiedere di impostare delle routine, ovvero una serie di azioni concatenate e programmate a priori, ma non dei riti. 

«Alexa, buongiorno» posso dire appena sveglio. 

«Buongiorno Alberto – mi risponderà immediatamente e educatamente Alexa –  oggi il meteo su Torino è…queste le principali notizie della giornata…questi tuoi appuntamenti…». Le routine non possono che muoversi lungo una linea orizzontale, mentre il rito si muove in verticale, facendo spola tra passato e presente. Per questo non è facilmente riproducibile.

I riti non sono per niente immuni ai cambiamenti sociali. Possono infatti perdere di significato, diventare mera ripetizione di una forma che non comunica più nulla, tramandare un’idea di società troppo lontana da quella vissuta e sentita dalle persone. Penso ad esempio al servizio militare obbligatorio, per molti ragazzi era una sorta di rito di passaggio, abolito nel 2004. O ad alcuni riti legati al matrimonio in cui la donna veniva offerta in sposa dalla famiglie d’origine senza che lei potesse avere alcuna voce in capitolo. I riti cambiano. Anzi, in alcuni casi è bene che cambino per non tradursi in violenza, sopruso, ripetizione di un’ingiustizia. Se però, come abbiamo detto, i riti tramandando i valori e gli ordinamenti di una società, il loro venire meno produce un vuoto. Un vuoto necessario, lo ribadisco, ma pur sempre un vuoto che deve essere preso in carico. 

La tesi di fondo del libro del filosofo sudcoreano Byung-Chul Han è che nel nostro tempo quel vuoto sia stato semplicemente riempito da un eccesso – quasi un obbligo – a produrre e da una spasmodica ricerca della propria individualità nascosta dietro al mito dell’autenticità. Il problema è che gli oggetti che produciamo e consumiamo non lasciano spazio a nessun tipo di produzione di senso. Così come la ricerca ossessiva dell’individualità non fa altro che spingere verso forme di narcisismo che escludono l’Altro dalla vita.

La scomparsa dei riti e il senso di smarrimento

La scomparsa dei riti lascia dunque spazio a un tempo che si muove quasi esclusivamente in orizzontale ma che proprio per questa sua caratteristica rende più difficile dare senso alla vita. Anche perché, se guardiamo con attenzione, sembrerebbe che anche il senso sia diventato un prodotto in commercio. Più che scaturire da un atto, da un rito, da una ricerca personale, da una domanda, il senso viene oggi messo in commercio diventando l’ennesimo prodotto.

Meditazioni, religioni, ideologie varie, coaching e ci metto anche certe psicoterapie, mettono in vendita direttamente il senso andando a rinchiuderlo dentro a parole che suonano sempre più vuote come benessere, felicità, realizzazione personale… Ma questo dover dare forzatamente senso e significato a ogni singola azione, atto terapeutico o meditazione non è il segno della scomparsa dei riti? Forse siamo disposti a comprare il senso perché non riusciamo più a trovarlo nel nostro vivere.

Il venire meno dei riti ha certamente consentito ai ragazzi, almeno in occidente, di vivere con maggiore libertà. Oggi viene dato ampio spazio alle scelte personali e ci sono meno vincoli sociali, culturali e religiosi. Questo è sicuramente un bene, anche se non può e non deve stupirci un maggior senso di insicurezza e instabilità presente nei ragazzi. Possiamo dire che il senso di oppressione nel dover stare dentro a delle regole prestabilite è stato oggi sostituito da un senso di insicurezza e di incertezza. Se i riti infatti hanno come caratteristica il dare senso alle cose del mondo, il loro venire meno, o comunque l’essere meno centrali nella vita di un uomo produce disordine e senso di smarrimento. In una fase della vita come quello dell’adolescenza, in cui i ragazzi necessitano di punti di riferimento, questo può significare fare maggiore fatica a trovare il proprio posto nel mondo. 

Ma, come detto nelle avvertenze, “questo articolo non è animato dallo struggente desiderio di un ritorno ai riti”. Lo ribadisco, perché quando si affrontano questi argomenti il rischio di fraintendimento è molto alto. Più che altro, la mia analisi nasce dall’impressione di avere in terapia sempre più spesso ragazzi con una forte crisi identitaria. Una crisi che deve interrogarci perché è in qualche modo prodotta da noi adulti. Siamo in grado di dire qual è il tipo di proposta che facciamo oggi ai ragazzi? 

Alain Badiou, un grande filosofo francese contemporaneo, nel suo saggio “La vera Vita. Appello alla corruzione dei giovani”, riprende questo tema portandoci al cuore del problema:

“In verità, la questione che dobbiamo tutti affrontare è la seguente: la modernità è l’uscita dalla tradizione. È la fine del vecchio mondo delle caste, delle nobiltà, delle monarchie ereditarie, dell’obbligo religioso, delle iniziazioni della gioventù, della sottomissione delle donne, della separazione rigida, formalizzata, ufficiale, simbolicamente molto efficace fra il piccolo numero dei potenti e la massa contadina, operaia, nomade, disprezzata e lavoratrice. […] Il punto forse più sorprendente, e comunque quello su cui dobbiamo soffermarci qui, è che l’uscita dal mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte sull’umanità e in appena tre secoli spazza via forme di organizzazione che duravano da millenni, crea una crisi soggettiva di cui percepiamo oggi le cause e la portata, e uno dei cui aspetti più vistosi è precisamente l’estrema e crescente difficoltà che la gioventù incontra nel situarsi nel nuovo mondo. È questa, la vera crisi”.

I giovani e i loro “nemici”

Per Badiou, che in questo saggio lancia un appello alla corruzione dei giovani, in questa crisi sono due i nemici interiori con cui un giovane deve confrontarsi. Il primo è la passione per la vita immediata, per il piacere, per l’immediatezza. Una sorta di bulimia al consumo che si illude di poter di trovare senso semplicemente godendo degli oggetti. Il secondo è la passione per la riuscita, per la ricchezza, per il successo. L’idea, opposta a quella precedente, di trovare un posto nell’ordine sociale esistente, in qualche modo di cercare di occupare i posti migliori e poter così godere di una vita tranquilla e serena. Contro questi due nemici, e preso atto della scomparsa dei riti e delle tradizioni, Badiou propone ai ragazzi di partire, di andare in esilio, di avere il coraggio di costruire una simbolizzazione di tipo egualitario. Compito difficile, ricorda il filosofo, perché fino a oggi il mondo è stato in grado di costruire solo simbolizzazioni sociali gerarchiche. I giovani sono dunque chiamati a un compito completamente nuovo: l’invenzione, contro la rovina del simbolico nell’acqua gelida del calcolo capitalistico e contro il fascismo reattivo, di una nuova simbolizzazione”.

Il senso di smarrimento nei giovani e l’altro

Il senso di smarrimento dei giovani, la crisi identitaria che personalmente sto riscontrando in molti ragazzi, deve allora spingere il nostro sguardo verso l’altro, il diverso da noi, l’ultimo. Lasciare spazio alle specificità di ciascuno per poter nuovamente creare un spazio sociale che non sia esclusivo ma, al contrario, inclusivo. Da questa prospettiva alcuni movimenti giovanili come quello del Fridays for Future, spostano finalmente l’attenzione sulla dimensione pubblica dell’ambiente in cui viviamo, sulla necessità di non considerare il mondo con una prospettiva individualista. Può sembrare utopico tutto questo, ma non abbiamo tante alternative. Il vuoto che la scomparsa dei riti ha lasciato può essere riempito da oggetti, dalla coazione a produrre, dal consumismo sfrenato e senza senso. Oppure si può cercare di operare una nuova simbolizzazione, che parta dalla trasformazione dei simboli del passato per renderli meno gerarchici e più inclusivi.  

Una cosa, almeno per me, è certa. I ragazzi hanno bisogno di una nuova proposta per non smarrirsi. E quella proposta che come adulti dobbiamo fare non può che esserci suggerita da loro.