Dare voce ai ragazzi
Riflettevo questa mattina su un’espressione che ha usato la mamma di una delle ragazze presenti nel libro per ringraziarmi. “Grazie per avere dato voce ai nostri ragazzi!”. Dare voce. Un’espressione che trovo bellissima. Intanto perché al centro c’è la voce, ovvero il timbro singolare della vita di tutti noi. Ciò che ci differenzia e ci rende unici. E poi perché in quel “dare” si trova secondo me il compito di ciascun adulto. Dare voce, permettere all’altro di esprimersi, di raccontare il suo punto di vista, di scoprirsi.
Questo “dare voce” è anche problematico. Spesso, infatti, diamo voce ma solo a condizione che l’altro dica quello che noi ci aspettiamo di sentire dire. È quello che succede, purtroppo, in tanti sintomi adolescenziali. La voce, intesa come unicità e particolarità di quel soggetto, viene meno. Al suo posto, quella dell’adulto. Oppure lasciamo che l’altro dica ma poi non lo ascoltiamo, non lo prendiamo in considerazione. Peggio, lo svalutiamo.
Dare voce è quindi riconoscere la soggettività dell’altro, con tutte le sue imperfezioni e imprecisioni. È accettare la scomodità di quello che verrà detto, facendo spazio anche alle ambivalenze di cui è piena la nostra vita. Per questo non è un compito semplice. Dare voce è compiere un atto di separazione dall’altro, lasciandolo così libero di essere.
Oggi più che mai è importante dare voce. Perché il periodo che stiamo attraversando ci sta mettendo a dura prova e perché i primi a smarrire la propria voce sono proprio i ragazzi. Una voce ancora immatura, in formazione e che proprio per questo rischia di disperdersi. In tutto questo la famiglia ha un ruolo importante, ovvio. Lo ha avuto fin da quando il bambino è venuto al mondo, dai suoi primi pianti. Crescendo, poi, è arrivata la scuola. E anche la scuola, da questo punto di vista, ha un ruolo centrale. Grazie al libro Adolescenza zero della psicoanalista Laura Pigozzi sono andato a recuperare due brevissimi testi di Freud: Psicologia del ginnasiale (1914) e Contributi a una discussione sul suicidio (1910).
In questi due testi Freud mette al centro il ruolo che la scuola deve avere per dare voce ai ragazzi. In Psicologia del ginnasiale Freud accende la luce sull’importanza che i professori hanno per i ragazzi: “è difficile stabilire che cosa ci importasse di più -scrive Freud ricordando i suoi anni a scuola – se avessimo più interesse per le scienze che ci venivano insegnate o per la persona dei nostri insegnanti”. Più avanti dice ancora: “Li corteggiavamo o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che provassero simpatie o antipatie probabilmente inesistenti, studiavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i nostri sul loro modello”. Che responsabilità, dunque! Le emozioni, spesso ambivalenti, provate nei confronti dei genitori vengono proiettate sui professori. A loro, all’istituzione scuola, spetta il compito di farsi carico di tutto questo, aiutando i ragazzi a trovare la propria voce. Una voce che sarà separata, finalmente staccata, da quella dei genitori. Non entrerò nel merito, ma una riflessione sul perché i genitori dovrebbero evitare di “invadere” le scuole dei figli è sempre più urgente.
Nell’altro testo, invece, Freud si sofferma sulle fatiche dei ragazzi. E dice che “la scuola non deve mai dimenticare di avere a che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello sviluppo”. La scuola non deve dimenticarsi, dunque, il suo ruolo: una palestra, un luogo in cui ci si forma alla vita, in cui ci deve essere spazio per l’errore e anche, perché no, per l’errare.
Dare voce, sono partito da qui, per poi allargarmi un po’. Tra le chiusure, i lockdown e la didattica a distanza, non è facile per i ragazzi trovare la propria voce. La casa, per definizione, è il luogo in cui si parla la lingua materna. A maggior ragione, allora, dare voce ai ragazzi è oggi fondamentale. Per aiutarli anche in una situazione come questa non solo a non smarrirsi, ma a ricercare il loro timbro, la loro unicità.